Dialoghi e verosimiglianza

“Saper scrivere” è un concetto che ingenera molta confusione e che, detto così, non significa nulla. Molti ancora credono che essere laureati sia imprescindible, come se esserlo in matematica aiuti in qualche modo a sfornare romanzi con la prolificità di Stephen King e la qualità di Gabriel García Marquez (ma anche esserlo in Lettere, pur se più appropriato, non è sufficiente a rendere qualcuno uno scrittore…). Molti credono di saper scrivere soltanto perché hanno scritto una tesi. Altri che se si è capaci di redigere un manuale tecnico, si è pronti per scrivere prosa o poesia. Un atteggiamento normale, anziché superficiale, vorrebbe che pensassero di saper scrivere rispettivamente una tesi e un manuale tecnico. Eppure…

Un giorno un collega informatico mi disse: «Scrivere un romanzo è facile. Basta conoscere la grammatica e avere un po’ di fantasia. Se mi ci metto, ne scrivo uno in un paio di mesi.»

Lo fissai negli occhi e gli chiesi sornione: «Conosci bene la grammatica?»

«Certo!» mi rispose quasi indignato.

«Diciamo che ti credo», replicai e la frase non gli piacque. «Allora adesso raccontami una storia. Non raccontarmi la fiaba di Cappuccetto Rosso, anche se sarebbe un inizio raccontarmela bene. Inventatene una di sana pianta.»

Mi fissò come se fossi pazzo, ma ero serissimo, sicché obiettò: «Ma così non si può… Eppoi cosa c’entra raccontare a voce?»

«E la fantasia dove la metti?»

«Be’, ma non è così che funziona…» Sguardo dubbioso, espressione un po’ persa.

«Se hai fantasia, la porti sempre con te», conclusi.

«Ah, perché tu allora sai inventarti una storia a voce, adesso?»

«Scegli tu l’argomento», gli risposi.

Se ne uscì con una cosa assurda, giocando sporco, perché si sentì messo in un angolo. Ciò nonostante cominciai a raccontare, ma mi fermai quando fu evidente che potessi continuare a lungo. Lo guardai e gli dissi: «Sai cos’è? Hai ragione, quello che ho appena fatto non significa saper scrivere un romanzo. Tu però, credimi, non sai una mazza di cosa significa scrivere narrativa.»

«Tu sì?»

Gli sorrisi. Poi comprese d’aver sbagliato persona per parlare dell’argomento.

~ ∞ ~

Saper scrivere non significa saper narrare, così come saper narrare non significa necessariamente saper raccontare a voce. Una delle cose che sottolineano questo dato di fatto sono i dialoghi. Non ne troverete mai uno in un manuale tecnico o in un saggio, a meno che i dialoghi non siano il tema affrontato (e di solito si analizzano dialoghi altrui). I dialoghi sono il primo banco di prova per chi crede che sia facile “scrivere narrativa”.

Ho un’inclinazione naturale per i dialoghi. Amo scriverli, mi sorprendono, li vivo in prima persona e spesso sono le parti migliori dei miei romanzi (motivo per il quale penso che prima o poi proverò a scrivere una sceneggiatura, senza la presunzione di saperlo fare: dovrò imprare molte cose). Questa mia capacità agli inizi era inconsapevole, ma è da quando ho cominciato a ragionarci che mi sorprende. È uno degli aspetti della scrittura che fa riflettere. Sento sempre che qualcosa mi sfugge, che racchiudono in sé un segreto che non si può analizzare del tutto.

Mi sono spesso interrogato sul come faccia uno scrittore a vivere un dialogo tra più personaggi in tempo reale o quasi, passando da uno all’altro cambiando prospettiva di continuo e mettendosi nei panni di più personaggi allo stesso tempo in un batti e ribatti caleidoscopico, quasi che la schizofrenia fosse una capacità, più che una patologia. Non so come faccio, ma so che lo faccio e non è una cosa che si possa insegnare. Nonostante il mistero che avvolge l’argomento, però, vi sono alcuni aspetti fondamentali affinché un dialogo abbia un valore e risuoni nel lettore.

È tutta una questione di verosimiglianza.

I problemi con i dialoghi sono sempre gli stessi: suonano artefatti, non fluiscono, risultano artificiali o stupidi o poco credibili per tono, proprietà di linguaggio e varietà della parlata – anche se quest’ultimo aspetto ha meno importanza di quanto si pensi.

Mai come nel caso dei dialoghi meno è di più. Per spiegarvelo niente di meglio che uno dei miei dialoghi – che presuntuoso!

 

«Dove sono?» Una voce cristallina provenne dal buio.

«Porca puttana…»

«Ho capito. Li hai persi.» Cristallina e calma.

«Porca puttana!»

«Dovevi svoltare a destra.» Sfrigolando, una fiammella illuminò un uomo alto, che indossava un elegante completo scuro sotto a un impermeabile grigio fumé, ora sbottonato. Questi prese a guardarsi all’intorno, fendendo l’aria col lungo naso appuntito.

«Cazzo!» Un secondo uomo, basso e tozzo, stava immobile con le mani sui fianchi. Dava la schiena all’altro.

Il fiammifero si spense.

«Dove siamo?» chiese la voce calma.

«Non lo so!» ringhiò l’altra.

«In una fogna, a giudicare dal puzzo.»

«Torniamo indietro.»

«Torniamo a casa.»

 

Questo dialogo apre il mio ultimo romanzo. Ancora non si sa chi sono i personaggi – infatti non ci sono nomi propri. È l’esempio perfetto per dimostrarvi che è molto importante il “meno” nei dialoghi: meno parti indirette, meno verbi che non aggiungono nulla. È necessario considerare un ritmo complessivo e non bastano le frasi dirette dei personaggi – di cui vi parlerò dopo, perché prima mi preme “mostrarvi” l’insieme.

Ora, pensate a un film: quando due personaggi parlano tra loro, voi ascoltate le loro battute senz’alcuna interruzione, vero? Sì, certo, c’è l’ambientazione, a volte la musica che crea una certa atmosfera, ma la vostra attenzione va tutta alle parole e all’espressione dei loro volti, alle loro reazioni. Ebbene, uno scrittore che infarcisce di “disse”, “rispose” o peggio ancora di “asserì”, “bofonchiò”, “berciò” e altri verbi ricercati non fa altro che sviare il lettore da ciò che veramente conta: quello che si stanno dicendo i personaggi. E lo fa anche lo scrittore che abusa della parte indiretta all’interno del dialogo stesso, strozzandone il ritmo, dilatando ciò che invece dovrebbe essere succinto.

Perché pensate che le sceneggiature descrivono inizialmente la “location” (o nemmeno quello) e poi sono quasi esclusivamente battute di dialogo, col nome di chi pronuncia ognuna di esse all’inizio? Be’, perché tutto il resto non conta.

~ ∞ ~

Veniamo al mio dialogo.

Contandole, le battute dirette sono undici. Quanti verbi ho utilizzato? Due. Un “chiese” e un “ringhiò”. Ovvero le battute si susseguono rapide.

Vi è un unico punto in cui mi dilungo nell’indiretto ed è quando descrivo in modo sommario i due personaggi. L’importante, in questo caso specifico, è infilare tali descrizioni con una certa sensibilità letteraria, cioè quando il dialogo non viene spezzato.

Uno dei due personaggi commenta “Dovevi svoltare a destra” e l’altro non ha nulla da rispondere. Non risponde, infatti, e la battuta successiva è una parolaccia. Poi il batti e ribatti riprende e di nuovo le parti indirette quasi svaniscono.

Sentite il ritmo? Rapido, una pausa descrittiva, di nuovo rapido.

Per i dialoghi diretti è fondamentale saper gestire l’indiretto, dosarlo e dire ciò che conta nei momenti opportuni.

È evidente che uno scritto così si raggiunge con la revisione ed è assai raro che l’equilibrio “perfetto” emerga dalla una prima stesura (accade, ma è raro). Di una cosa però dovete essere avvertiti circa i dialoghi: la revisione deve focalizzarsi molto sulle parti indirette e il meno possibile su quelle dirette.

 

Durante la prima stesura dovete focalizzarvi sulle battute dirette, invece. Più sentite il dialogo dentro di voi, più verosimile sarà. E per verosimiglianza s’intendono molte cose.

Ricordo una discussione che ebbi ai tempi della mia parentesi come autore pubblicato. Qualcuno aveva criticato un dialogo all’interno di un mio romanzo. Il lettore (aspirante scrittore) tacciava d’incoerenza il fatto che un personaggio dicesse alcune cose che più avanti si dimostravano sbagliate. La mia risposta fu una domanda tranciante: tu dici sempre e solo cose esatte? Non la prese bene e mi disse che mi stavo arrampicando sugli specchi.

Eppure è proprio questo che si deve capire dei dialoghi: affinché siano verosimili, i personaggi devono essere veri e per risultare tali si sbagliano, mentono, a volte si esprimono male, si confondono e non parlano come se fossero un libro scritto, a meno che il personaggio stesso non sia dotto o possegga un naturale inclinazione al linguaggio.

Tutto ciò non deve spaesare il lettore e se accade allora lo scrittore ha fallito. Altra cosa è che i personaggi siano confusi. Il punto è che ognuno di noi parla a modo suo e la lingua parlata non è quella scritta, lo sappiamo. I termini usati devono accordarsi al personaggio. C’è chi è volgare, c’è chi per nulla. C’è chi usa i congiuntivi parlando e chi non conosce altro tempo che l’indicativo (alla Mike Bongiorno, LOL!). Un dialogo vive di malintesi, di botta e risposta, di pause di riflessione, di accellerazioni e di confusione, di personaggi che interrompono, di domande mal formulate, di risposte incomprensibili a cui deve corrispondere la giusta reazione, dell’umore dei personaggi, delle loro credenze, di leggende metropolitane, d’informazioni approssimative e di sapienza, di saggezza e di stupidità. I dialoghi sono la parte viva della narrativa e non possono limitarsi al compitino del bravo scrittore che ha studiato la teoria.

I dialoghi sono stronzi. Non rispettano il lettore, devono rispettare solo e soltanto la natura dei personaggi. Comparando, in un racconto il narratore può permettersi qualsiasi registro e di solito ammicca al lettore, mentre il dialogo è anarchico, non può essere comandato. Tutt’al più il narratore tenta di mettere un po’ d’ordine.

Il modo migliore per dimostrarvi ciò di cui parlo è invitarvi a leggere un’ulteriore dialogo del mio ultimo romanzo, con cui concludo quest’email. Non c’è tutto quello che vi ho detto, ma contiene alcuni elementi anarchici. Giudicate voi.

 

Inquadriamo il brano. Oliver (il punto di vista) è un ragazzino che soffre una leggera forma d’autismo e che ama dipingere. Il “dottor Zanchi” è un anziano gallerista.

 

«Buongiorno dottor Zanchi», disse alla cornetta.

Nei secondi di silenzio che intercorsero tra quel saluto di presentazione e la risposta, Oliver considerò che suonava folle chiamare “dottor Zanchi” la cornetta del telefono.

«Oliver?» Il gallerista suonò sorpreso. «Dimmi, giovanotto. Sono tutt’orecchi.»

«Tutt’orecchi?»

«Non in senso letterale, Oliver. Si dice così per dire che si è pronti per ascoltare con attenzione», gli spiegò il dottor Zanchi. Anche lui parlava troppo per i suoi gusti, ma perlomeno aveva il senso della misura e dava l’impressione di sapere bene cosa stesse dicendo.

«Vorrei acquistare una tela di due metri per sei. Come faccio?»

«Due metri per sei?» esclamò il gallerista. Poi si zittì, cosa che a Oliver parve naturale e perfino confortante. «Per il ritratto di tua madre?»

«No.»

«E per cosa?»

«Per aspettare», sintetizzò. Era un concetto chiaro.

«Aspettare cosa?»

«Il momento giusto.»

Il dottor Zanchi non obiettò. «Te la procuro io, Oliver.»

Ringraziò e si concentrò sulla seconda richiesta. «Vorrei acquistare una tela circolare, del diametro di due metri.»

«Oliver… Non volevi una tela da due metri per sei?»

«Sì.»

«Ne vuoi un’altra, dunque?»

«Circolare, del diametro di due metri.» Sintetico, chiaro.

«Tele circolari non se ne trovano, Oliver. È il pittore che disegna un cerchio e non esce dai suoi confini.»

«Allora taglierò una tela quadrata con i lati di due metri», rispose. Il gallerista non ebbe da ridire nemmeno questa volta, sicché lui passò alla terza richiesta. «Vorrei una tela di quattro metri per tre.»

«Di nuovo?»

«No.»

«No?»

«Vorrei una tela di quattro metri per tre», si ripeté. Sintetico, chiaro.

«Va bene, Oliver. Ti procuro io anche questa, ma non potresti dirmi tutto quello che ti serve in una volta sola?»

«Ho finito.»

«Ah, bene. E quest’ultima tela e quella circolare a cosa ti servono?»

«Ad aspettare.»

«Mmm… Vuoi aspettare molto.»

«Sì», confermò, sentendosi sempre più strano a dire tutte quelle cose alla cornetta. Del resto era la telefonata più lunga della sua vita. «Devo aspettare tre, quattro giorni».

«Tre giorni!»

«Tre, quattro giorni», precisò.

«Quattro giorni?»

«Tre, quattro–»

«Ho capito, Oliver! Ma… tre, quattro giorni?»

Il dottor Zanchi gli parve sconcertato. «Mi dispiace, è necessario.»

«…»

«Grazie, dottor Zanchi.»

«Prego…» Il tono del gallerista suonò distante, come se fosse impegnato e lui non avesse più tutta la sua attenzione. Insomma, non era più tutt’orecchi, ma anche qualcos’altro.

«Scusi il disturbo», disse, perché gli sembrò appropriato. «Buona giornata.»

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