18 Agosto 2020
In questi giorni il tempo a mia disposizione non è stato molto, complice qualche impegno – come uscire stamani alle 6 di mattina per l’ITV, che è il test meccanico e delle emissioni che si deve passare annualmente per poter circolare. Considerando che io scrivo la mattina, prima di cominciare a lavorare alle 9:30, ho perso tre ore di scrittura.
E complici un paio di notti in cui ho dormito male. Capita a chi soffre di RLS. Se dormo male una notte, pazienza; se dormo male due notti di fila, sono un po’ dolorante e la mia scrittura ne risente.
L’angolo del tecnoscrittore :)
La sera ho dovuto cercare soluzioni ad alcune “problematiche” di flusso di lavoro sul nuovo Mac. Più d’una, ma in particolare una fondamentale.
Sono un tipo pignolo quando si tratta di lavorare al computer. Tutto deve filare liscio di modo che io possa concentrarmi sul compito, evitando di pensare allo strumento che mi mette i bastoni tra le ruote.
Il mio MacOS è organizzato in spazi da sempre, perché ritengo che uno schermo ordinato aiuti a non disordinare la mente. Trovo insopportabili quegli schermi con finestre sovrapposte una all’altra e di differente dimensione, che creano l’effetto “pila caotica”. Ovviamente chiunque è libero di gestirsi come preferisce, ma spesso è una questione di “sciatteria informatica”: per non pensare a come organizzare le cose per bene e spendere qualche ora al massimo, si finisce per lavorare nella confusione per mesi o addirittura anni.
È un mio pallino. Prima o poi creerò un corso d’igiene da schermo. Lo giuro! LOL.
La mia logica è “meno mouse/trackpad è meglio”. Sì?
In quest’ottica, uno degli aspetti che considero fondamentali è il poter accedere ai file del proprio computer da ovunque e in modo rapido e comodo — parlando di scrittori, ai nostri preziosissimi documenti.
Sul mio vecchio MacBook usavo Total Finder, un software del tipo “add-on” che aggiungeva due cose fondamentali al normale Finder di sistema operativo della Apple: uno, il doppio pannello, atto a vedere due cartelle allo stesso tempo e poter copiare e spostare file dall’una all’altra facilmente; due, il “visor”, una funzione che permetteva di far apparire la finestra ovunque tu fossi, con una dimensione prestabilita e nella posizione voluta con un semplice shortcut (il mio è “CMD + E” da tutta una vita, perché quando cominciai a scrivere sul serio usavo Windows e l’Explorer usa “WIN + E” da quando esiste Windows, in pratica).
Sembra incredibile, ma il Finder ancora non s’è evoluto in questo senso. Stiamo a vedere il nuovo sistema Big Sur, ma a quanto pare innovano cose di cui non me ne potrebbe fregare di meno e queste funzioni di base restano nella preistoria (è il prezzo da pagare con Apple: a volte più che “chiusi”, cosa che considero importante per la sicurezza, sono semplicemente “immobili”, che è un’altra cosa; vabbè…).
Ho valutato decine di opzioni per un nuovo File Manager. Purtroppo nessuno ha il “visor” come Total Finder, che però per funzionare chiede di disabilitare un sistema di sicurezza del MacOS dalla Recovery Partition già da qualche versione del MacOS, cosa che non ho intenzione di fare in modo permanente, perché se c’è una cosa che i Mac garantiscono è la sicurezza e non me la gioco.
Alla fine la mia scelta è stata ForkLift 3.
Grazie a un altro software posso richiamare la finestra di ForkLift con una scorciatoia da tastiera (CMD + E, ovviamente!) e ho cambiato in MacOS il shortcut di sistema per farla scomparire, assegnando “CMD + SHIFT + E” al menù “Hide ForkLift”.
La finestra dell’applicazione è assegnata a tutti gli spaces. Ora faccio apparire e scomparire ForkLift 3 con le succitate combinazioni di tasti. Ho quello che avevo con Total Finder e molto di più, perché ForkLift permette varie cosucce graziose che il Finder – e quindi un semplice add-on come Total Finder – non permetteva (connessioni FTP, rinomina di intere sequenze di file, eccetera; chiunque fosse interessato, la homepage del software illustra bene cosa fa: https://binarynights.com).
Adoro quando le soluzioni migliorano la situazione precedente al problema.
Il giorno dopo
Nel mezzo del cammin tecnologico-nottambulo, ho comunque continuato a scrivere il mio primo capitolo dopo dieci anni d’inattività — il 20˚ del romanzo. Stavolta la scrittura a braccio non ha sortito l’effetto sperato e son dovuto tornare indietro e sistemare un dialogo che, in tutta sincerità, era scentrato, di poco impatto e piuttosto statico.
I protagonisti “incontrano” – la storia è diversa – un personaggio, col quale poi cenano. Durante la cena, questi spiega cos’è successo alla città, qual è la sua storia e come s’è arrivati al presente.
Il racconto era poco credibile, perché alcuni particolari non stavano bene in bocca a un personaggio di quel tipo. Erano troppo da storico, troppo colti, nonché troppo… dettagliati, quasi che secoli prima l’uomo fosse stato lì.
Va detto che era una prima stesura. Sono andato a braccio e raccontare una storia che nemmeno io conoscevo m’ha preso un po’ la mano. Capita di continuo, quando finisci nel flusso e le dita vanno da sole, mentre tu soltanto immagini.
Una prima stesura non necessita forzatamente di grande precisione. Eppure a me dà fastidio la troppa approssimazione, perché influenza il prosieguo.
Mi spiego. Se ad esempio scrivo che Tizio dice a Caio che “il tal personaggio storico è morto cadendo da un ponte”, anziché soltanto “è morto in quella battaglia” è possibile che io faccia istintivamente riferimento alla caduta dal ponte nelle scene successive e questo, in pratica, significa moltiplicare gli sforzi durante la revisione, perché dovrò correggere il dialogo iniziale – Tizio non è uno storico: troppi dettagli! Tagliare… – e di conseguenza dovrò correggere tutto ciò che segue – o quantomeno star attento che quanto segue non faccia riferimento a qualcosa che ho tagliato.
Il mio consiglio è di lasciar perdere la forma, che si migliora in revisione, ma mai i dettagli. Migliore è la prima stesura, migliore sarà il risultato finale della revisione, di dettagli ragionando. Banale, vero? Eppure c’è chi crede si possa e si debba fare quello che si vuole, quasi che l’estro possa imperversare e le conseguenze siano il capolavoro.
Sono d’accordo si debba andare a briglia sciolta, meno che si vada a briglia sciolta per settimane e poi ci si ritrovi di fronte centinaia di pagine che sono un enorme cumulo d’inesattezze e spropositi.
Da sempre la mia soluzione – e quella di moltissimi scrittori rinomati – è rileggere il giorno seguente quanto scritto il giorno precedente e sistemarne il contenuto senza badare alla forma. Agisco in modo grossolano e soltanto poi continuo con una nuova scena.
Considero la riscrittura e la revisione a grandi linee come parte della prima stesura. Non sono revisione. Se da una parte è vero che si sta rimaneggiando un testo già scritto, dall’altra si sta influenzando un testo che ancora non esiste. A volte dico a me stesso che queste riletture e correzioni sono il mio Limbo narrativo.
Morale? Ebbene, il dialogo adesso ha una sua logica, pure una sua bellezza ed è, spero, interessante – cosa che valuterò per bene durante la revisione e, infine, durante l’ultima rilettura a voce alta. L’ultima parte mi pare pecchi della “sindrome della sceneggiatura” – altra mia definizione – quindi dovrò risistemarlo. Prima di scrivere la prossima scena, aggiungerò qualche tocco di vita e di movimento, senza eccedere perché le battute dirette sono ciò che contano. Poi continuerò col capitolo.
Conta già quasi 6.000 parole per 6 scene, nonostante sia stringato e non perda mai il filo.
To be continued…