Ci siamo rincoglioniti nel tempo come lettori?

Perché un tempo leggevamo opere più complesse, che oggi ci sembrano manchevoli, astruse, talmente distanti dai parametri odierni che ci sfiora l’idea che non siano buone? E perché non si scrivono più?

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14 Giugno 2024

V olevo rispondere con un commento sotto il video di Flavio Troisi, che è come sempre molto stimolante ascoltare.

Nella rara possibilità che non vi siate ancora iscritti al suo canale Broken Stories, ma siete qui a leggere i miei post, be’, cosa aspettate? Andate, iscrivetevi e, soprattutto, ascoltate: sono certo che lo troverete compatibile con i vostri interessi.

Va da sé, il mio post può essere letto anche senz’aver visto il video. Rifletto e dico cose dopo aver ascoltato Flavio. Tutto qui. È la mia prospettiva su una questione piuttosto complessa, che va ben al di là della questione “rincoglionimento”.

Il video di Flavio lo trovate qui: Che cavolo ci è successo in 50 anni di fantasy?

Per motivi che mi sono ben chiari soltanto ora che ho finito di scrivere, la risposta è diventata una vera e propria digressione. È un testo troppo lungo per pubblicarlo come commento su YouTube ed è anche un’ottima occasione per chiarire nella mia vera casa, cioè questo blog, come la penso.

Esatto, qui, in uno di quei luoghi anacronistici che rispecchiano i tempi che furono e che quasi nessuno frequenta più.

Vi dirò, mi sembra appropriato.

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Le cause della (presunta) decadenza della narrativa di genere fantasy

La diffusione della scrittura creativa e la martellante ripetizione delle sue sacre regole, che son diventate dogmi, è una delle principali cause per cui non si trova più nulla alla Samuel R. Delany – o alla Tanith Lee o alla Jack Vance… continuo?

(L’altra fondamentale differenza è che nessuno è Samuel R. Delany. Ma evitiamo di scadere nell’ovvio, d’accordo?)

In seguito a questa alfabetizzazione meramente teorica sui principi che regolano “il modo in cui si devono raccontare storie”, c’è stata l’adesione pressoché totale degli editor che lavorano nelle case editrici medio-grandi, incitati da dirigenze che, nel tempo, hanno tradito il vero spirito dell’editoria in molti modi, anche se non sempre con la stessa frequenza che oggi, purtroppo, m’appare crescente e ormai ben oltre l’allarmante.

Siamo all’avvilente, direi.

Sebbene l’editoria si occupi di commerciare prodotti – come ti viene ricordato ogni santa volta che osi criticarla –, da tempo ha iniziato a vedere in quei prodotti qualcosa di molto meno importante e di spessore rispetto a ciò che un romanzo era e continua a essere, con l’effetto di produrre una soverchiante quantità di titoli piatti, omologati e scritti tutti allo stesso modo.

I generi letterari contenuti nell’enorme calderone che il fantastico è, da sempre fonte di una creatività strabordante, sembrano essersi ridotti a produrre nella maggior parte dei casi una minestrina riscaldata e insipida.

Sob.

Per trovare bisogna cercare col lumicino

Ma è proprio vero? Direi di no.

Tuttavia si è costretti a cercare nei dintorni della piccola editoria o mettere il naso proprio fuori dai luoghi tradizionali, adeguandosi ai tempi.

In alto, sopra le nostre mortali teste, vola l’asfittica, imperante, ma sbrilluccicante logica puramente commerciale dell’editoria italiana, che ha eretto muri invalicabili e nel contempo implode in mille frammenti, che schizzano impazziti in direzione di ogni potenziale moda passeggera.

In basso, appassionati e vestiti di stracci, autrici e autori di valore sono costretti a fare di necessità virtù. Se non c’è modo d’entrare, allora si fa diventare il fuori un dentro.

Esiste e sta crescendo una realtà indipendente, formata da penne tutt’altro che scarse, spesso latrice di una qualità che non sfigura affatto con quella dei testi pubblicati in modo tradizionale. Anzi, in taluni casi ben al di sopra della media editoriale – la cui isteria causa conseguenze negative prevedibili.

Purtroppo i lettori italiani, già oberati da difetti come l’esterofilia, pur essendo i primi a lamentarsi della china presa, confessando una nostalgia per i tempi passati che in parte condivido e in parte considero disfattista, non si guardano attorno. Non con gli occhi ben aperti. O, se lo fanno, si caricano sulle spalle di ulteriori pregiudizi che poco a poco stanno diventando sempre più anacronistici.

Se è vero che i testi di autrici e autori indipendenti comportano un maggior rischio d’incappare in qualcuno che non sia all’altezza, mi sembra che non si comprenda quanto piatto, triste e asfittico sia il panorama in libreria. E che quindi, forse, si potrebbe osare di più, come lettori.

C’è chi ancora scrive sul serio

Ovviamente è un contemporaneo, quindi lo fa da una prospettiva molto distante da quella degli anni di Samuel R. Delany (Il romanzo alla base del video di Flavio Troisi, “I gioielli di Aptor”, è del 1962), cosa che ai succitati nostalgici potrebbe tagliare le gambe.

Se vincessero il disfattismo, però, i nostri si accorgerebbero che tra i baldi del presente c’è chi non segue né quelle regolette castranti, né la dittatura del mercato. C’è chi segue sé stessa o sé stesso, come fanno coloro i quali hanno come punto di partenza la passione per ciò che fanno e non per ciò che potrebbero ottenere facendolo. E che di conseguenza lo fanno perché non possono farne a meno, rispondendo all’urgenza, con onestà intellettuale assoluta.

Bisogna guardare oltre.

Bisogna farlo sul serio, anziché star lì a piangere sui fasti di un passato che non tornerà più. Non si può chiedere di avere un Samuel R. Delany, ma si può ancora avere qualcosa che non strizzi l’occhio alle mode e, invece, abbracci con passione l’idea di “letteratura di genere”, provando a elevarsi nel modo che più gli è congeniale, senza limiti nelle modalità e nelle intenzioni.

L’idea che si possa fare, però, viene osteggiata da più parti, perché chi osa dà fastidio quando impera l’omologazione.

Ora, attenzione. L’omologazione non è soltanto rappresentata da quali storie riempiono gli scaffali delle librerie e quale sia la loro prosa. L’omologazione è anche e soprattutto una forma mentis, un modo di pensare che si crede libero e che, invece, qui e là, anche nei casi più brillanti, finisce per incanalarsi in qualche modo e seguire logiche di massa – ne esistono anche nella nicchia della nicchia, ahimè.

Eh, già. Purtroppo bisogna volare bassi per piacere, altrimenti stai antipatico. E non si possono più esprimere le proprie frustrazioni autoriali per un panorama editoriale deprimente; se lo fai, sei un narcisista o un frustrato… Spesso entrambe le cose.

Chi addita, però, non s’accorge d’essersi messo in fila, sposando logiche da pensiero unico.

Non sono d’accordo su molte delle cose che sento ripetere in continuazione

Ad esempio, una cosa è l’umiltà artistica, un’altra è pretendere che chi scrive sul serio si svilisca e abbassi allo stesso livello del nulla cosmico di un’editoria – e del codazzo di scribacchini e artigiani della scrittura – che parla di “crescita del libro in Italia” in base alla quantità dei titoli pubblicati.

(Lo so, lo ribadisco spesso. È perché non riesco a capire come sia possibile che la questione venga propinata come rilevante una volta dopo l’altra in contesti che dialogano di qualità.)

Insomma, non ci vedo nulla di strano che ci sia chi si sente migliore, se ha dalla sua ragioni importanti; con cognizione di causa.

Voglio dire, non ci vuole molto a fare meglio di quella robetta impalpabile, che si dimentica non appena chiuso il libro – sempre che si riesca a finire di leggerlo.

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Nota a latere o digressione nella digressione… Fate un po’ voi.

La “letteratura di genere fantasy” passa per testi di pura azione, per testi che hanno introspezione, per testi che considerano cruciale l’ambientazione, così come per quelli che affrontano questioni politiche, esistenziali, filosofiche, eccetera. Passa, cioè, per una grande varietà di approcci e di soluzioni.

Sono perciò in disaccordo con Flavio quando denigra il concetto di “introspezione” con ironia – o forse sarcasmo – definendola “seghe mentali”. Comprendo e rispetto l’enfasi con cui accoglie l’assenza di un seppur minimo dialogo interiore nel testo di Delany.

Annotazione mentale lecita.

Il mio atteggiamento, però, è sempre stato quello dell’allievo, quando leggo. Ancora oggi è così. Cerco d’imparare e vedo tanti maestri, non pochi. Ho sempre avuto la tendenza, cioè, a prendere il buono che c’è in ogni testo – quando ce n’è.

È per questo motivo che non molto tempo fa, dialogando col mio caro amico Massimo Perissinotto, gli dissi che io non riesco a scegliere tra Tolkien e Moorcock, nonostante io abbia delle preferenze – nessuno dei due, cioè io amo Ursula Le Guin! Tiè!

Non sono capace di dire “questo è meglio di quello”, quando si parla di maestri assoluti. Tutti grandissimi, a modo loro, e la mia preferenza è irrilevante.

Lo dico per giustificare la seguente affermazione: svilire intere modalità di scrittura in un colpo solo non mi appartiene. È proprio per questo motivo che reagisco (male) quando qualcun altro lo fa: mi dà fastidio. È lecito avere opinioni personali, è sacrosanto non amare qualcosa, ma denigrare è miope.

Mi preme evidenziare che nel 1970 non ci si limitava così a priori e sarebbe bene non farlo nemmeno oggi, cosa che mi riporta all’omologazione – del pensiero, più che del testo in sé.

Forse una delle cause di dove siamo, cinquant’anni dopo, è proprio quest’atteggiamento tranchant – e no, non abbiamo la qualità di Mark Twain per permettercelo.

Fine digressione nella digressione.

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Chi è che si è rincoglionito?

Mi rifiuto categoricamente di pensare che non esista chi fa bene ancora oggi.

Il fatto che in libreria, ufficialmente pubblicato, sia raro trovarlo, parla di tutt’altro problema e non del fatto che ci siamo rincoglioniti, né come scrittori, né come lettori ormai abituati alla pappa in bocca.

E se qualcuno s’è rincoglionito, be’, io no.

A un certo punto e per forza di cose ho smesso di leggere quello che veniva pubblicato, ma non ho smesso di raccontare storie a modo mio e ho la stessa prospettiva d’una volta; anzi, forse persino più estrema.

Qualcuno mi pubblica? No.

Qualcuno mi legge? Neppure.

Qualcuno sa se quello che scrivo ha un valore? No.

Perché?

Perché indipendente – per molti “il self-publishing è merda” (l’ho letto più di una volta) – significa a priori, traducendo educatamente, che “non merita, perché l’editoria non l’ha voluto”.

Mm. Almeno nel mio caso, chi conosce la mia storia lo sa, si manca il bersaglio scagliando la freccia tra gli arbusti. È risaputo: sono io che da tanti anni non ho più voluto avere a che fare con l’editoria italiana.

Perché? Perché già nel 2005 avevo capito quello di cui stiamo discutendo oggi. Non mi sembrava proprio il caso di far parte dell’andazzo.

Non. Con. Me.

Ora, vi chiedo una cosa: pensate davvero che io sia l’unico caso esistente di “persona che sa scrivere” in tutta Italia e pubblica in self? Se voi lo pensate, be’, io no!

Un’evidenza e un’importante chiarificazione

Sì, sono uno di quei “falliti del self-publishing”. Nel contempo, ancora sì, quattro dei miei romanzi fanno parte della (mitica) Fantacollana dell’Editrice Nord – quella vera. Certo, il mio ultimo romanzo era il numero 200, non il numero 1 di Delany e la Nord non era quella dei fasti passati. L’editore, però, era pur sempre Gianfranco Viviani.

Voglio dire: sicuri sicuri che si siano rincoglioniti proprio tutti? Ovvero che il fantasy, oggi giorno, non offra più una certa qualità? E che ogni autrice e autore che pubblica in modo indipendente sia un brocco? E che, come ovvia conseguenza, tutti i lettori e le lettrici non siano più capaci di apprezzare testi di un certo tipo? Che siano, insomma, vittime sacrificali di un modus operandi che ha reso angusto il panorama narrativo?

Be’, posso parlare soltanto per me.

Come autore non oso paragonarmi a Delany, né a nessuno dei grandi che hanno fatto la storia della letteratura di genere, con cui sono cresciuto – e per fortuna, aggiungerei!

Non oso per due motivi: uno, lasciamo i grandi del passato nel posto che compete loro, cui io non appartengo; soprattutto, due, non voglio essere Delany, nemmeno lontanamente.

Io sono io. Sono contentissimo di chi sono, tra le pagine dei miei romanzi; ne vado fiero. Lascio agli altri il sogno (malato) di essere qualcun altro.

Oggi giorno va di moda l’ambientazione minuziosa?

Il problema non è la “moda”, ma il “dogma”.

Anche a me è stato detto: “l’ambientazione regna sovrana nel fantasy”. Mai stato d’accordo, pur essendo io uno che – spesso, non sempre – se la studia, l’ambientazione (date un’occhiata a questo mio video). Chiarisco, anche se è poco interessante: sono dell’opinione che in scrittura comandino i personaggi, sempre e comunque, che sia narrativa di genere o meno.

A ogni modo, negli anni di Delany e dei grandi fondatori dei generi letterari così come li conosciamo nella contemporaneità, le ambientazioni c’erano già.

Il Signore degli Anelli”, l’ambientazione per antonomasia, non è del 2000. E anche Moorcock, sebbene decisamente meno sontuoso del Professore, descrive i luoghi in cui Elric si muove con una certa precisione. Lo scrivo per parlare di due mostri sacri che influenzarono tantissimo le opere che vennero dopo di loro, pur essendo in qualche modo contrapposti per approccio. Lo stesso vale anche per la Le Guin in quello che per me è il capolavoro assoluto della letteratura fantasy: “La Saga di Earthsea”.

In quegli anni c’era Delany e c’erano gli altri.

Quello che non c’era, dunque, era l’appiattimento su uno stesso modello. C’era il rapido e c’era il riflessivo. C’era l’azione e c’era la filosofia. C’era tutto e nessuno storceva il naso. E, se sì, provava a fare diversamente e meglio rimboccandosi le maniche.

Pensando al significato di quel creativo vagare e al senso del meraviglioso, si spaziava liberamente e in modo sfrenato. Immaginazione e meraviglia che oggi sembrano essere mutate in altre due cose con una loro dignità, indubbio, che però io considero deleterie. Non in sé, sottolineo, bensì perché stanno totalizzando l’attenzione a scapito del resto: il peluche dello young adult e il leviatano cieco e sordo del grimdark.

”Peluche” non è denigratorio, è descrittivo: gli adolescenti dei miei tempi leggevano cose ben più spigolose e dure e non ne uscirono sconvolti o traumatizzati.

Anche ”leviatano cieco e sordo” è puramente descrittivo: esiste una visione pessimistica, sin troppo spesso nichilista di chi siamo e che non ammette repliche – e chi non l’apprezza è malvisto. Per questo lo descrivo come una tendenza cieca e sorda: è priva di sfumature.

La mia, ovviamente, è una prospettiva che ha valore soggettivo: ognuno la vede come gli pare.

Riassumo così il mio limitatissimo pensiero: il fantasy si è allontanato dalla realtà (non c’è alcun refuso), checché ne pensino i cultori del buonismo intriso di politically correct o i pessimisti de “il mondo è una merda, il Male è dappertutto e siamo tutti perduti per sempre, spacchiamoci la testa a vicenda!”

La realtà non è fatta da soli peluche e da soli leviatani. Vanno bene anche quelli, non mi si fraintenda. Ma… solo quelli?

Sul serio?

A questo si è aggiunto un appiattimento della prosa, propugnato – e a questo punto direi in buona parte causato – dai guru della scrittura, che però, guarda caso, di scrittura non ne hanno prodotta di memorabile: l’hanno soltanto insegnata, fregiandosi di titoli vinti da altri, dichiarando: “È un mio studente!”

Ci sarà un perché.

Inoltre, scusate: quali premi sono? Dati da chi? In quale sistema editoriale? Ursula K. Le Guin vinse l’American Book Award soltanto nel 2014, quand’era già un’adorabile vecchietta.

Per me finisce lì.

Il problema non è il romanzo da mille pagine – che poi, ma chi pubblica romanzi di mille pagine di autori italiani?! I tomi in Italia sono di autrici e autori stranieri.

Il grosso, grossissimo guaio a Chinatown è cosa c’è scritto e come è scritto. Che il testo poi ne abbia mille o trecento fa lo stesso.

Non concepisco l’arrendevolezza

La mia intenzione non è parlare di me stesso. Sono però l’unico esempio concreto di cui ho reale conoscenza e mi tocca usarmi – spero senza abusarmi.

Non mi piace si dia per persa la guerra. Tutto qui. E non ci sto per un motivo preciso: scrivo ancora. Se pensassi che non possa contare, smetterei. Lo dico a tutta la brava gente che segue Broken Stories su YouTube: bisogna levarsi di dosso l’idea che abbia vinto il nulla cosmico e che l’unica alternativa sia il tradizionale, che per forza di cosa è costretto in qualche misura a ovvi compromessi, se vuol sopravvivere.

Io non ci sto.

(Spezzando una lancia in favore degli eroici piccoli editori che lavorano bene, dico che Ursula K. Le Guin pubblicò con la piccola editoria fino alla fine dei suoi giorni, in patria. E anche in questo caso ci sarà un perché…)

Non vi sto dicendo di leggere i miei romanzi. Fa lo stesso. Siate però meno ancorati all’idea che la roba buona esca soltanto per una casa editrice. Tra il 1970 e oggi c’è un abisso, e nel mezzo c’è il fallimento dell’editoria (specie italiana) come modello culturale.

Non fanno cultura. Quelli che contano numericamente e muovono masse di lettori – sempre più esigue e ci sarà un… okay, basta – fanno puro commercio. Lo sapete bene quanto me. Difatti leggete testi di piccole case editrici.

Dobbiamo imparare a muoverci e sorreggerci l’un l’altro, perché i tempi sono bui e la tensione sta crescendo, culturalmente, proprio come suggeriva la mia amata Ursula.

Diamo ben bene un’occhiata in giro e testiamoci, prima di dire che ci siamo rincoglioniti – cosa che di Flavio non mi pare si possa dire, anche se gli è venuto il dubbio e con la sua consueta, apprezzabilissima onestà intellettuale l’ha comunicato.

Forse ci siamo soltanto ossidati. Non è grave, perché c’è ancora chi sogna e osa, credetemi!

C’è chi è disposto a seguirlo?

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4 commenti su “Ci siamo rincoglioniti nel tempo come lettori?”

  1. Sono d’accordo con te quando dici che c’è da imparare da tutti: non esiste un’unica voce da ascoltare, ma tante. E più si apprende meglio è. Certo ognuno poi ha il suo modo, le cose che preferisce raccontare, ma è questo il bello: la varietà. La varietà rende ricchi, rende pieni.
    Quella varietà che oggi nell’editoria tradizionale si è persa perché si punta su quello che può dare guadagno e quindi si fanno storie simili a quella che ha fatto il boom in un determinato momento.
    Sul fatto che ai nostri tempi si leggevano opere più complesse e crude, forse sì, ma posso parlare per me e per te di cosa come sicura, per altri, dipende: c’era chi leggeva poco o niente, e chi quello che andava sul momento, ma era per lo più i primi. Limitandomi alle letture fantasy delle elementari (per le altre c’erano autori come Verne, Stevenson, London, Twain) subito dopo Weis, Hickman e Brooks, lessi Donaldson (da ricordare come Erikson lo ringrazi per averlo ispirato), autore di libri non proprio per bambini: abituato a personaggi di un certo tipo, rimasi colpito quando lessi del protagonista che stuprò la ragazza che l’aveva accolto e aiutato. Mi fece pensare e vedere le cose in modo diverso dalla classica avventura eroe contro mostri. Oltre alla Landa (ambientazione che mi rimase impressa), mi colpì l’introspezione del personaggio di Covenant, che di eroe non aveva nulla, anzi, non voleva che nessuno lo vedesse come tale: la complessità con la quale veniva analizzato mi diede da pensare e per questo non sono d’accordo con chi asserisce che in un fantasy l’introspezione non ci deve stare. Perché? Il fantasy ha dei mezzi di un certo tipo per raccontare una storia e in una storia l’introspezione è uno degli elementi. Poi ognuno la utilizza come vuole, ma ridicolizzarla o ritenerla pippa mentale, questo non mi sta bene, perché poi ci ritroviamo delle brutte copie di uno stesso soggetto.
    Forse però è questo che alcuni hanno voluto: l’omologazione, perché la varietà, la diversità, fa pensare e pensare è un male per chi è al potere e vuole comandare. Sarà un andare fuori tema, ma è questo che si è cercato di fare in Italia e in parte ci si è riusciti e non riguarda il fantasy. L’Italia non è mai stato un paese di grandi lettori, questo va ricordato: c’era chi leggeva tanto, ma la maggioranza non lo faceva. Poi è successo che una persona per i propri interessi personali (ripianare debiti, coprire i propri reati), da imprenditore e possessore di televisione è entrato in politica e ha goveranato per anni il paese, utilizzando i mezzi a sua disposizione per dare alla massa una certa mentalità, perché non doveva pensare, ma limitare a divertirsi, e pertanto gli si dovevano dare cose semplici e superficiali. I danni di quanto ha fatto li si vedono ancora oggi.
    Ci siamo rincoglioniti? Una parte sì. Ma gli è andata bene così: ha permesso di farlo. E quindi è responsabile come chi ha voluto che si rincoglionisse.
    Non penso di contare, non penso di poter cambiare un bel niente. Ma posso non adeguarmi. Posso non farmi influenzare. E soprattutto, posso non aggiungere altro fango al mondo.

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    • L’unico modo è andare per la propria strada e dare l’esempio. A me preme che mia figlia capisca certe cose, poi il mondo se ne frega di chi sono… Ciò nonostante concordo con te: devo perlomeno tentare di non peggiorarlo, se non sono in grado di migliorarlo!

  2. Sono d’accordo su tutto, soprattutto il capitolo BISOGNA GUARDARE OLTRE. Delany, ma anche Silverberg, sembrano non avere più un pubblico “giovane” perché ritenuti lenti o troppo complessi. Questa cosa sta capitando anche al cinema, FURIOSA (bellissimo ma veramente bellissimo) film è un flop, per il pubblico è troppo serio e lento, la trama stratificata confonde gli spettatori. Ma non è tutto così, intendiamoci, le sacche di resistenza saranno sempre piene e coriacee. Del buono c’è sempre, ma BISOGNA GUARDARE OLTRE.

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    • “Furiosa” me lo segno!
      Per alcuni dei lettori odierni di fantasy “La Rocca dei Silenzi” è lento e troppo complesso (mi è stato riportato). Va’ tu a capire cosa leggono… Non mi sembra di aver scritto un testo tipo, che ne so, “Il libro del Nuovo Sole”!
      Ciò detto, io guardo oltre, scrivendo e leggendo. Mi saprai dire di Alessandro Giannotta, ad esempio. Toh! Un self!

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