Esiste una parte oscura ai più, quando si parla di “diventare scrittori”, se con l’espressione s’intende di professione – ho già chiarito che scrittori si è, artisticamente parlando. È oscura ai più perché per conoscerla bisogna viverla e per viverla bisogna firmare un contratto con una casa editrice degna di questo nome – ovvero di quelle che non vi chiedono denaro per pubblicarvi e, anzi, vi danno un anticipo, pur se in una quantità simbolica agli esordi. Quel tipo d’esperienza si deve vivere per comprenderla – e molti finiscono per non capirci un’acca comunque.
Siamo un popolo di “scrittori” e sempre meno di lettori: assai pochi la vivono, in percentuale, da qui quel “oscura ai più”. Ho avuto il merito e la fortuna di rientrare in quella ristretta minoranza, avendo pubblicato per l’Editrice Nord prima dell’acquisizione da parte del Gruppo Longanesi e anche dopo, essendo parte dell’ancor più ristretto gruppo di scrittori con cui decisero di continuare dopo l’acquisizione.
Credo nel potere della parola scritta, sicché oggi tenterò di raccontarvelo perché vi facciate un’idea abbastanza precisa di cosa si agita nell’ombra, prima che il volume raggiunga le librerie. Sarà un testo contaminato dal mio punto di vista: ognuno di noi ha la propria sensibilità. Sì, si parla proprio di sensibilità e non di carattere, quando si ha a che fare con “la propria arte”.
L’arte che c’è in noi ha radici profonde. Non è una semplice abilità che si acquisisce con un corso di scrittura creativa, ad esempio. Così come non è nemmeno l’oggetto “libro”, quando lo stringete in mano per la prima volta, fresco di stampa. Usando una metafora sportiva, non è importante in quanto tempo correte 10 km, l’importante è lo spirito che vi anima mentre vi allenate per riuscire a raggiungere quel risultato.
Compreso questo, comprenderete perché parlo di sensibilità: ognuno vive l’esperienza di entrare nel mondo editoriale a modo suo. Da ciò si evince che non è facile essere obiettivi, ergo sarà un racconto contaminato.
Ciò premesso, ho avuto più riscontri dai professionisti del settore di essere un tipo lucido nella fattispecie. Quanto vi dirò è visione personale, ma vicina alla realtà oggettiva.
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Sono innamorato della narrativa quando raggiunge la qualità della letteratura e allo stesso tempo sposa l’intrattenimento. Trovo assai pesante James Joyce, ad esempio (mi perdonino coloro i quali lo amano; è soltanto un gusto personale, è un grande scrittore anche ai miei occhi… ma siamo troppo distanti sul cosa, nonostante ammiri il come). Temo la questione sia dovuta alla mia formazione come lettore: sono cresciuto leggendo un sacco di romanzi di genere (ma non solo). Un sacco: quando lasciai l’Italia, a 37 anni, fui costretto a sbarazzarmi del 95% dei miei libri. Tra bagarini e donazioni a una biblioteca di Trieste come autore, mi sono privato di quasi 3000 romanzi, di cui almeno la metà letti per intero (nonostante sia un bradipo-lettore). Autori come John R. R. Tolkien, Ursula Le Guin, Patricia McKillip, Robert E. Howard, David Gemmell, Michael Moorcock, Roger Zelazny, Edgar Allan Poe, H. P. Lovecraft, Isaac Asimov, Artur C. Clarke, Frank Herbert, Jack Vance e altri ancora… (per non nominare i contemporanei) …tutti questi autori hanno scritto romanzi che raggiungono vette di qualità letteraria. E tutti loro hanno tenuto in grande considerazione l’aspetto “intrattenimento”.
Questo è ciò che amo, in cui credo e anche ciò che provo a scrivere.
Eppure non si può negare che la realtà (editoriale) sia assai variegata e di gran lunga più popolata di autori. In libreria si va dalla carta straccia di scarsissimi pennivendoli ai geni adolescenti oppure dai bravi mestieranti agli Scrittori, quelli veri, quelli con la esse maiuscola.
Pubblicare non significa essere Scrittori e nemmeno essere diventati scrittori di professione – cosa che a sua volta non garantisce lo siate artisticamente.
Quella maiuscola non credo sia per pochi eletti. Allargo il cerchio di parecchio, giù fino alla narrativa di genere, pensate un po’. I puristi si scandalizzano per questi accostamenti, lo so, specie in Italia. E in parte hanno ragione, ma difettano di un po’ di apertura mentale in più: nonostante allarghi quel cerchio, infatti, la quantità di “scrittori” esclusi resta di cento volte superiore a quella contenuta.
Ora, il mondo dell’editoria accoglie Scrittori, scrittori di professione e scrittori da catalogo – più un’infinità di altre situazioni che non ha senso elencare, perché insignificanti in percentuale.
Quando si esordisce si è scrittori da catalogo, salvo rarissimi casi – spesso studiati a tavolino per “creare il fenomeno” e vendere più di quanto i libri in questione valgano grazie alla conoscenza del mercato. «Il ragazzo prodigio autore del romanzo rivelazione negli Stati Uniti! 350.000 copie vendute in 6 mesi!» Poi lo leggi e l’unica cosa eccezionale che trovi nei suoi romanzi è la conoscenza grammatico-sintattica per l’età che ha… Un attimo e la mente ti ricorda degli editor e dei correttori di bozze, che possono resuscitare i morti. L’aspetto commerciale è giustamente, ma anche sproporzionatamente presente nelle case editrici d’Italia.
Siamo un popolo esterofilo: prima lo capite, meglio è.
Le collane della mia ex casa editrice vivevano un picco negativo di vendite ogni volta che l’autore in copertina era italiano. Come popolo siamo proni ai “fenomeni” assai più che in altri Paesi. Non siamo, cioè, un pubblico maturo, anche se ci riempiamo la bocca con la grande tradizione culturale italiana. È tradizione, non è il presente già da un bel po’ di anni.
Vorrei vi facciate un’idea sommaria di cosa affronterete, se la vostra ambizione è pubblicare. In questo panorama gli scrittori che vivono di scrittura in Italia sono davvero pochi. Uno degli sport preferiti dei lettori connazionali è disfare tutto ciò che non piace e c’è grande negatività anche su se stessi. Assurdo. Non è così in Francia, dove difendono e valorizzano a spada tratta i propri autori, in Germania, dove sono più equilibrati, in Spagna, dove la vivono in modo più leggero… E nemmeno lontanamente in Inghilterra, ove la maturità del pubblico è di gran lunga superiore, anche o forse soprattutto per questioni storiche (specie se si parla di “generi”). Quanto accade in Italia accade anche all’estero, ma da noi di più ed è tossico. Avvelena quasi ogni discussione, confonde qualsiasi ragionamento. Il risultato finale è che la stragrande maggioranza degli autori si arrabatta con iniziative collaterali, come ad esempio corsi di scrittura creativa. No comment.
Ma, insomma, cosa si vive quando si viene messi sotto contratto?
Com’è quel mondo oscuro?
Anzitutto, non è un mondo solo. Un conto è che vi pubblichi un piccolo editore, un conto uno medio o grande. L’esperienza cambia completamente. Ho avuto la fortuna di vivere entrambe le situazioni.
In breve, il piccolo editore fa le cose come può. Spesso una sola persona fa le veci di più figure professionali: editore, editor e correttore di bozze; editore, promotore e amministrativo. Eccetera… Pro: se un piccolo editore investe soldi su di voi, significa che davvero crede in voi. Contro: la qualità del testo può risentirne, perché lavorare con persone dedicate ed esperte in uno solo degli aspetti di un “libro” è tutta un’altra storia e col piccolo non avrete questa fortuna.
Il grande editore fa le cose per bene. Da una persona sola che agiva come un factotum, ci si ritrova circondati da cinque, sei professionisti… Ognuno si occupa della sua parte e tutti pretendono il miglior risultato finale possibile. Pro: il vostro romanzo ne uscirà (quasi) sicuramente migliorato e farà la sua bella figura in mezzo a quelli di scrittori affermati (ma non avete il loro nome). Contro: le aspettative di un grande editore sono alte. Se la tiratura iniziale può essere la stessa del piccolo, a volte, ciò che ci si aspetta è di vendere assai di più (e poter dire che si è andati in ristampa). Se un piccolo si accontenta di 3.000 copie vendute, un grande guarda con ribrezzo le cifre sotto le 10.000 e spesso pretende di più per continuare a lavorare con te.
Il tuo romanzo non vende a sufficienza? Pazienza, hai fatto catalogo.
Esatto. Catalogo. La case editrici valgono anche e soprattutto in base al proprio catalogo. E in un catalogo tutto fa brodo.
È chiaro?
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Se vivere l’esperienza della pubblicazione è un vostro sogno, vi auguro di viverlo. Tuttavia ricordate che inizialmente state soltanto facendo catalogo: vi eviterà cocenti delusioni o di illudervi come bambini innocenti. Il fatto che vi trattino bene è soltanto una questione di forma: la valutazione dei risultati sarà impietosa.
Se vi capita, fate tesoro di quanto vi dirò ora.
Imparate più che potete.
Siate apertissimi alle critiche e ragionate prima di (tentare di) confutarle: è possibile che quella sarà la prima e ultima volta che viviate un’esperienza simile ed è imprescindibile farne tesoro. Non siate presuntuosi e non piccatevi: quei professionisti stanno tentando di migliorare il frutto della vostra creatività e la mancanza d’esperienza in scrittura si vede sempre. Sono persone preziose per la vostra passione.
Nel contempo, non accettate stravolgimenti del vostro lavoro.
Se siete stati messi sotto contratto per pubblicare un testo che alla fin fine non è più il vostro, tanto vale non pubblicare. A meno che non ve ne freghi nulla e l’unica cosa che conta per voi è pubblicare e avere successo – ma allora cosa mi leggete a fare? Non sono la persona che fa per voi.
Punto il dito sul “tristemente famoso” editing strutturale, che si propone di cambiare la struttura di un testo, perché inefficace o dannosa per il successo del testo stesso (secondo la personale visione dell’editor). Non dico di non accettare alcun cambio, dico che stravolgimenti nella struttura sono un pessimo segnale: vi stanno trattando come un fenomeno commerciale, perché pensano abbiate la possibilità di vendere bene. Se la cosa vi lusinga, non siete scrittori per davvero. Siete mestieranti. Non è un male in sé, solo vi spingo ad analizzare le vostre pulsioni e intenzioni: vi eviterete bagni di sangue.
Un editore serio, se pensa ci siano seri problemi strutturali, ma vi ritiene promettenti, vi risponde di lavorare sulla struttura (e magari vi dice cosa c’è che non va in due righe due). Non lo fa sotto contratto, ve lo consiglia senza spedirvi alcun contratto e poi, eventualmente, ne riparlerete. Questo perché l’editing strutturale dovrebbe effettuarlo l’autore.
Se invece siete innamorati della vostra arte, le date un valore intrinseco, che trascende il mero aspetto commerciale, e avete firmato un contratto, allora siate umili e ricettivi sul come, ma non fatevi mai toccare il cosa a meno che non siate d’accordo che vada fatto.
Personalmente ho chiarito fin dal primo contratto cosa non si poteva toccare, sottolineando che se non si era d’accordo potevamo non firmare il contratto o, una volta firmato, rescinderlo. Non ci fu alcuno screzio, né discussione. Patti chiari, amicizia lunga.
Insomma, non fatevi prendere dall’ansia o dall’euforia se vi propongono un contratto editoriale (be’, dai, un’ora di follia ve la potete anche concedere). Ragionate con freddezza. Vi convince quanto l’editore in questione vi scrive? Se no, chiedete chiarimenti prima di firmare. Domandate cosa pensano di fare col vostro manoscritto. Schiena dritta e guardateli negli occhi fin dal primo incontro, se avrete modo d’incontrarvi: non è che loro sono dei e voi infimi esseri insignificanti. (Ho già detto, vero, che chiunque vi chieda soldi è un essere insignificante per voi?)
Mi rendo conto che quanto c’è da dire è tanta roba anche se riassumo. Continuerò la prossima settimana, dunque, parlandovi della pratica dopo la firma del contratto.
Ancora una volta sottolineo quanto vi ho già scritto più volte: scrivetemi se c’è qualcosa di preciso che volete sapere o di cui volete “discutere”. Chiedete e vi dirò ciò che so. Mi sembra impossibile che dopo aver letto un’email come la presente e non abbiate esperienza personale di pubblicazione, non abbiate alcuna domanda.
Fatevi avanti senza problemi. Potete anche scrivermi per dissentire: ho sempre detto che ricerco il dialogo, cosa che prevede anche che le parti non sono d’accordo.
Frattanto, buona vita!