· ★ ·
14 Giugno 2024
N on riscontro nulla di grave nelle opinioni di chi la pensa in modo opposto al mio, sempre che si limiti a ciò che le o gli piace. Se invece esprimerle comporta tacciare chi la pensa in modo diverso d’avere una prospettiva errata…
Il genere fantasy nella storia
Il fantasy è sempre stato latore di elucubrazioni filosofiche. Non esiste genere che abbia maggior potenziale nel porsi domande che s’interroghino sugli aspetti sconosciuti e spesso inconoscibili dell’universo.
La filosofia implica lo studio della natura dell’universo, quindi si potrebbe azzardare che il fantasy s’addentri in un sottoinsieme della filosofia, quello del meraviglioso – concetto che non va limitato a ciò che è “favoloso”, dacché comprende in sé anche lo “spaventoso”.
Il “sense of wonder”, esatto. Proprio quel senso del meraviglioso che sin troppo spesso, in anni recenti, ha smesso di affascinare molti contemporanei e quindi perso potenza, in virtù di soluzioni semplicistiche, quando va benissimo duali, che non apportano granché a tematiche annose.
E no, non sono mai andato d’accordo con chi dice che è già stato scritto tutto, se l’affermazione comporta che rielaborare è inutile. Bisogna attualizzare i concetti alla contemporaneità, che offre spesso novità significative (pensate, ad esempio, alle AI oggi: c’erano nel ‘900?). Oppure, secondo esempio, vogliamo dire che oggi il modo di corteggiarsi è lo stesso del 1990?
Ci siamo capiti.
Cosa c’entra il senso del meraviglioso?
Il senso del meraviglioso è da sempre scusa e nel contempo spinta alla base della narrativa speculativa, atteggiamento che un certo tipo di fantasy sposò e sposa tuttora. Speculare, cioè domandarsi, porta inevitabilmente a filosofeggiare in cerca di risposte e perciò di soluzioni.
Ancora una volta, poiché stiamo parlando di letteratura di genere, non si consideri il concetto di “soluzione” come qualcosa di natura scontata, col tipico pragmatismo del muratore.
Gli scrittori sono da sempre, in buona parte, sognatori e incurabili romantici. Ovvero persone prone all’idea che una soluzione sia anzitutto foriera di uno o più concetti essenziali, di un qualcosa d’impalpabile che però apporta vantaggi esistenziali, in cui rientra di diritto, ad esempio, l’accettazione salvifica che non esista una reale risposta ai propri filosofici dubbi.
Che gran perdita di tempo, dirà qualcuno!
Nient’affatto. Per lo scrittore conta l’aver cercato con impegno, dettagliando e approfondendo su carta il problema… affrontandolo grazie alla storia senza risparmiarsi e, infine giunto alla sua conclusione, arrendersi alla propria umana incapacità d’ottenere risposta certa, eppur soddisfatto d’aver tentato il possibile per riuscirvi.
“To learn which questions are unanswerable, and not to answer them: this skill is most needful in times of stress and darkness.” – Ursula K. le Guin
“Per capire quali domande sono prive di risposta, non per rispondere: questa qualità è ancor più importante in tempi di tensione e difficoltà.” – Ursula K. le Guin
John R. R. Tolkien, Ursula K. le Guin e Michael Moorcock sono tre tra i più grandi scrittori di genere fantasy che si permisero di filosofeggiare e influenzarono le generazioni a venire. Vero, ci fu anche il pragmatismo di Conan, di un altro grandissimo, Robert E. Howard – e molti considerano che Elric sia una risposta, perché personifica il suo opposto – non mi addentro o filosofeggerei troppo…
È proprio questo il punto: che problemi abbiamo, che siamo incapaci di accettare che entrambe le prospettive possano coesistere? Un tempo lo fecero e mi pare che le generazioni future se ne siano giovate.
La filosofia non è per tutti, ma è persistente
Non esiste una prospettiva superiore alle altre. Esistono le storie e ciò che lasciano di sé. I libri vengono dimenticati, ancor prima vengono dimenticati gli autori, ma ciò che è stato detto e ha risuonato nell’animo di un lettore persiste, anche se in modi spesso impercettibili o indecifrabili.
Sono cresciuto nella convinzione che fantasy non sia sinonimo di evasione, ma di distacco. Sia cioè il mezzo prediletto di chi riflette su questioni che necessitano di una distanza che permetta di vedere con chiarezza il quadro generale.
Facciamo un esempio. Seguitemi.
Se ammirate una spiaggia e vi fissate sulle onde che vanno e vengono sulla battigia, vedete l’oceano? No, vero? Si potrebbe obiettare, però, che noi adulti sappiamo cosa sia l’oceano. Insomma, non è necessario vederlo per riflettere sulla sua vastità. Certo.
Ora, però, fate uno sforzo d’immaginazione. Fate, cioè, la stessa cosa che fanno gli scrittori quando decidono di scrivere una storia per provare a spiegarsi e perciò capire cos’è l’oceano, farlo proprio vivendone l’essenza. Ovvero, immaginate che voi siete la o il protagonista e avete visto sempre e soltanto quella spiaggia e quella battigia. E che nessuno vi abbia mai detto dove finisce quello specchio d’acqua, quanto sia grande e cosa contenga. Immaginatevi, cioè, di dover indagare quanto si estende il poco che vedete. E, di conseguenza, apprendere quanto piccoli siete voi.
Sì?
Molte cose sono incomprensibili, se osservate da vicino. Di più, sono imperscrutabili senza utilizzare l’immaginazione, il “what if”, ovvero l’idea che si possa sperimentare qualcosa credendolo vero anche se non esiste ancora e, forse, non esisterà mai.
Difatti lo stesso ragionamento si può applicare a questioni astratte, intangibili, cioè fatte di una materia che non è l’acqua salata dell’oceano e ha la sostanza del pensiero che ingenera dubbi e sollecita un’urgente ricerca con l’intento di verificare se una risposta è alla tua portata.
Abbracciare la filosofia non è arringare le folle
Ciò detto, considerare il genere fantasy il mezzo perfetto per affrontare dubbi amletici e provare a rispondersi non c’entra affatto con la pretesa di mandare un messaggio a chi legge.
Domandarsi non è predicare.
Non si confonda la filosofia che impregna molte tra le migliori pagine della letteratura fantasy con la presunzione di chi pensa non soltanto di avere risposte certe, ma di averne di tale portata da poterle perfino inculcare agli altri, nella convinzione che abbiano un valore oggettivo.
In conclusione, come qualsiasi altro genere letterario, anche il genere fantasy offre picchi di qualità non comuni soltanto di rado. Tuttavia il fatto che sotto a quelle vette vi sia una minor qualità complessiva non implica che chi ci prova sia un mentecatto o stia sbagliando. Implica che è nella nostra natura provarci.
Sarebbe perciò accorto evitare di opporre alla predica un’altra predica.
Esiste un frammisto di prospettive spesso incompatibili, ma di certo comparabili per qualità e portata, come lo sono tutte le prospettive che indagano le “grandi questioni”, soggettivamente. È una ricchezza, non un affronto.
Del resto la miglior virtù della soggettività è sapere di esserlo e non sconfinare nel giudizio.
· · ·