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3 Marzo 2021
Ho troppe idee per stargli dietro per davvero. Sin da quando iniziai a scrivere sono costretto a scegliere tra quelle che ho, scartandone parecchie con noncuranza. Se duole, non le scarto; le rimando, chissà nelle prossime reincarnazioni – in cui non so se credere. A volte sono convinto della scelta compiuta, altre volte il dubbio mi tormenta.
Ciò che si vede di questa battaglia tutta interiore è che cambio spesso idea. E sempre, sempre, il tempo appare dominante. Risorto dalle mie ceneri dissi basta, pur senza saperlo dapprincipio.
Cara lettrice e caro lettore, per il tempo che mi resta conduco io.
Au revoir, vecchio Zar. Torna quando sarà venuto il tempo.
Sono. E non puoi nulla.
Se ho imparato a non vergognarmi dei miei frequenti cambi di direzione, allo stesso tempo non è certo il modo più produttivo di procedere.
Ora, con cosa sono alle prese, dato che sto per terminare “Senzanome” e ho una prateria di tempo da attraversare di fronte a me, spensierato e libero? Be’, sono alle prese con me stesso. Quindi, anzitutto, quella prateria non esiste. Anzi, non esiste “di tempo”; la prateria sì.
Mi son fatto venire in mente l’idea di lavorare alla prima stesura de “Il giorno dopo” e alla riscrittura de “Il Primo Ciclo Minore” contemporaneamente.
Leggi bene. Contemporaneamente.
Considerando che sono un romanzo tra le 700 e le 800 pagine e una trilogia che forse si aggirerà sulle 900, se riuscirò a essere denso e sintetico come vorrei… Non sarà che sto esagerando un tantino?
Qual è il vantaggio, se di vantaggio si tratta? Qual è lo scopo di un simile modus operandi? Insomma, ma perché diamine devo complicare così tanto le cose? Uffa. Gosh! Sob.
Perdindirindina.
Analizziamo (la mia psiche). Sempre che vi sia analisi possibile, anziché un labirinto con una sola entrata e nessuna uscita.
Il giorno dopo
Ultimato “Senzanome” (questa settimana), non dubito che la mia successiva ambizione sia “Il giorno dopo”. È il mio secondo, grande obiettivo dichiarato per il 2021 – mi piacerebbe finirlo, ma dovrò essere molto performante per riuscirci.
Sai cosa, però? Non mi limito.
I limiti li lascio agli esseri che non sono infiniti – cosa che tu e io, invece, siamo.
Inoltre, e soprattutto, “Il giorno dopo” rappresenta un corposo, torreggiante messaggio – a me stesso, ché se non oso lanciarne ai lettori, cui lascio il senso dei miei scritti, che aleggia, lì, tra le righe, e non mi permetto d’ammorbarli con della prosopopea invadente.
I miei personaggi dialogano e del lettore non ne sanno nulla. Così dev’essere. Il narratore? Ah, be’, quello pensa a raccontare la storia, non si fa illusioni e calca il sentiero meno battuto del bosco con speditezza fino alla meta.
Di che messaggio si tratta?
Il romanzo esce dall’angolo in ombra dello studio e mi sorride, sornione. Inspira a fondo ed espira lentamente, un po’ teatrale, come i romanzi usano essere. Benedetti loro. Poi mi fissa e mi dice: “Il Goràh, Andrea”.
Io: “Sì, lo so. È un po’ il mio lungo giorno dopo”.
Il romanzo: “Esatto”.
Io: “Nove anni per nove secoli, più o meno”.
Il romanzo: “Ora non essere impreciso per far quadrare il cerchio”.
Io: “La vera differenza è che io so cos’è successo”.
Il romanzo: “Ne sei del tutto certo?”
Io: “Eh, no, ho già dato! Le certezze le lascio ai cretini”.
Il romanzo: “Allora sai che lo devi scrivere”.
È così, ha ragione il romanzo: “Il giorno dopo” lo devo scrivere. Non che io abbia dubbi in merito, eh. Semplicemente vi scorgo degli importanti sottintesi personali.
Non è un romanzo qualsiasi.
Allora, cerchiamo di essere onesti, eh, Andrea. D’accordo.
Una delle leggi immutabili della mia scrittura è che non deve mentire. Vero. E non nel senso che pretende d’essere verità, ma che deve dire sempre la mia verità. Costi quel che costi. Altrimenti taccio.
La verità te la devo, dunque, cara lettrice e caro lettore. Non esiste mio romanzo che non abbia significati importanti e a me utili. Per comprendere e perciò progredire. L’ho sempre detto: la mia seconda legge della scrittura è sfidarmi, sempre e comunque. O non è scrittura.
Quella comoda, che reitera il già fatto, che non s’addentra in zone oscure del proprio essere per paura del buio, non è scrittura. È manierismo, commercio, mestiere. Se la mia scrittura non cerca risposte a domande sincere, muore.
Poi c’è anche il lecito diletto. Ma vi pare che scriverei romanzi di 700 pagine per mero diletto? Quella è tanto roba.
Successivamente, che quelle risposte, latrici di ulteriori domande, echeggino in altri esseri umani affini, dalla sensibilità comparabile, è soltanto una conseguenza. Ma quella conseguenza sarà impossibile se la ricerca è superficiale. Quando scrivo, se non sono pronto a stupirmi, meravigliarmi e persino a intimorirmi, magari a tratti terrorizzarmi, allora faccio prima a smettere di scrivere e andare a leggere qualcuno che invece sì l’ha fatto.
È fondamentale dare importanza al tempo, se si vuol evitare che ti domini.
La scrittura è zeppa di scrittori periferici, ma è verso il nucleo che si fa densa, vera, sentita e potente. Ed è lì che io ambisco ad arrivare, sempre. Ogni volta che parto, punto al nucleo della questione.
Quindi “Il giorno dopo” mi deve portare dove mi deve portare. E io mi ci lascerò portare. Eh, ma dove mi porta?
E chi lo sa?
Eheheh…
Parlo sul serio, cara lettrice e caro lettore: non lo so! È per questo che si tratta di una sfida. Il canovaccio è lì, so di cosa parla, so qual è il finale, ma il senso di un romanzo non è mai quello che s’immagina all’inizio.
Mai.
MAI.
(Nota a latere: sto scrivendo un articolo che tratta il tema. La mia esperienza ha evidenziato che il romanzo ha – per me – sempre tre significati – o sensi. Quello di quando lo idei, quello che senti quando lo ultimi e quello, definitivo, che riconosci quando hai trascorso tanto tempo senza di lui che sei già in tutt’altro luogo, artisticamente. Ne riparleremo…)
Più concretamente, “Il giorno dopo” è il mio secondo, grande obiettivo perché lo stavo scrivendo e mi sono fermato a metà, vinto. Lo volevo pubblicare, ma non fu possibile, non con l’Editrice Nord, che chiuse la porta – e io chiusi tutte le altre e me ne andai, perché sì, gné gné gné.
Rivendico la dignità di quella scelta, ma come ho già avuto modo di dire (forse su Medium in inglese), avevo le mie responsabilità e un sacco bello grosso di cose da capire.
Le ho capite tutte? Ahahah…
A ogni modo, è acqua passata sotto i ponti dei miei mondi fantastici.
Insomma, capiscimi, cara lettrice e caro lettore, non posso ripartire se non lo finisco e pubblico. È una spina nel fianco, così come lo è “Senzanome” (come lo era? O che bella sensazione sarà dirlo fra una settimana!), così com’è la forma acerba degli unici romanzi pubblicati di quella grandissima cosa che è “La Triade”. È quindi un passaggio obbligato per me.
Qualcuno ne sarà contento – parlo di quella minoranza che apprezzò “La Rocca dei Silenzi”. Quello che conta, però, è che io sarò contentissimo.
Forse chi mi segue comincia a capire perché l’editoria non m’interessa affatto. Non è (più) una questione di fama, ma di realizzazione personale, che non c’entra affatto col successo, la fama, il denaro.
È per arrivare a quel cerchio che si stava cercando di tracciare.
Chiuderlo e così, mentre ci si guarda allo specchio, un pensiero emerge delicato, sussurrato: Molto bene, Andrea. Hai fatto la cosa giusta per te stesso. Ti sei espresso.
Esprimersi, profondamente, sinceramente, è sempre la cosa giusta da fare. Tutto il resto è un contorno, rumore, fastidioso sottofondo.
Voglio che le mie note siano cristalline e pretendo di suonarle.
Sarà musica per pochi? Ha davvero importanza, quando ciò che amo fare è suonare? Chi ha piacere ascolti la mia musica. Tutti gli altri sono sorelle e fratelli in ogni caso: giriamo assieme su questo pianeta. Non devono ascoltarmi perché li consideri tali.
Arte è per arte.
Sì?
Il Primo Ciclo Minore
Il terzo obiettivo, che con un certo realismo (tutt’altro che magico) considero il principale del 2022, è sicuramente “Il Primo Ciclo Minore”.
Rappresenta la terza e ultima spina che mi si è conficcata nella carne. Anzi, che mi conficcai nella carne da solo, dacché gran parte della responsabilità è mia.
Ora, recuperata una certa stabilità mentale, il mio nuovo viaggio riparte dai luoghi cari e familiari attraverso cui viaggiai. Rivisitare e ravvivare è certamente un nobile intento. E non ho mai sottovalutato il potere della riscrittura.
Quindi, perché no, mi sono detto: riscrivi la tua trilogia d’esordio, così potente e così claudicante a causa del tuo essere ingenuo virgulto. Riscrivila, dalle la grandezza che si merita una volta per tutte e da lì continua.
Scrivi l’Ennalogia! Ascendi la Scala Erta. Ascendi.
Festeggia ed eleva il tuo immaginario, celebra la tua strepitosa immaginazione, che hai sempre cullato e mai tradito. Respirala. Rispettala e finalmente regalale un luogo sereno dentro di te. Non c’è nulla di più prezioso, perché vero, di ciò in cui infodesti tutta la tua passione.
Lo sai, Andrea. Fosti tu il folle che permise a chi non ne sapeva nulla di metterla in discussione. Ecco. Pazienza, è fatta. Ora, ascendi!
Dal momento che sei caduto e ti sei rialzato, dacché hai visto l’oscurità che c’è in te, puoi assurgere alla tua luce. Emergere dalle tue profondità e fare cucù!
Ricordi quel pagliaccio? Quel meraviglioso, fantasmagorico e brillante pagliaccio che era Robin Williams? Lui sapeva. E tu sapevi che lui sapeva.
Non ti resta che celebrarti.
Eccerto, perfetto. Tutto bello e giusto e programmato. Ci sto lavorando da tre anni e durerà ancora un paio d’anni. Un quinquennio per riprendere da dove avevo abbandonato.
Perfetto? No. Il problema è che mi son detto: d’accordo, ma perché non arrotondare a tre progetti i due previsti per il 2021? Almeno portarmi avanti coi compiti a casa. Potrei giocare d’anticipo, non ti pare?
“Fuggi da te stesso, sciocco!” m’ammonirebbe Gandalf.
Ma, sai com’è, oh saggio, ho imparato negli ultimi anni che l’unico modo per ambire a una vita che sia degna di questo nome è non limitarsi. Altrimenti si riduce tutto a esistere, come diceva Oscar Wilde. Mi piacerebbe appartenere ai pochi e non sarebbe per una questione d’esclusività.
Io. Voglio. Vivere!
Esistere non mi basta. È per questo che non mi voglio porre alcun limite.
Lascio, raddoppio o cos’altro?
Non sono un monolito nero a cui le scimmie tirano ossa. Non sono fatto tutto d’un pezzo e non riesco a sfidare le ere, lo spazio, e so – lo sento – non posso battere il tempo al suo gioco.
Ho paure, timori. I ricordi ogni tanto m’incatenano e, anche se per ora sono sempre stato forte abbastanza da spezzare quelle catene, e ho ripreso a camminare e a riempirmi lo sguardo di verità, c’è sempre quell’ombra che m’insegue. O forse la inseguo io, come in Earthsea. Non lo so. Ma c’è e temo, perché se non temessi avrei già capito tutto.
Mi mancava sorridere. Vorrei continuare a farlo.
Allora temo che se non mi metto a scrivere “Il Primo Ciclo Minore” da subito, poi quando sarà il suo tempo m’apparirà troppo. Insormontabile. L’ho già scritto e un’altra, larga riscrittura è pesante per uno che sente d’aver perso dieci anni di scrittura.
Un momento: non sono stati un decennio inutile. Capiscimi, cara lettrice e caro lettore. Ho fatto tante cose, anche se non le ho comprese tutte e alcune mi sono venute decisamente male, eppure sono cresciuto, ho imparato. Poi, sì, mi sono anche sfracellato, ma mi sono anche ricostruito.
Non è poco. L’esperienza è una delle poche cose che non si dovrebbe mai sottovalutare a questo mondo. E io non la sottovaluto. Non sottovalutarla nemmeno tu. La tua, dico, non la mia, ché non te ne frega molto.
Questo monologo finisce online, ma lo so che chi lo legge per davvero sono io. E mi sta bene, non c’è lamento nei caratteri che sto digitando. C’è consapevolezza dell’importanza che rivesto per me stesso.
Io sono. E sono tutto ciò che ho.
(Inesatto. C’è un pezzo meraviglioso di me, di là, che dorme. Ha 7 anni. Si chiama Blu. Lei è ciò che do a questo mondo. Ciò che mi ha permesso di vedermi e capire che no, che così stavo sprecando la mia bellezza. Il fatto è, però, che un figlio non si possiede. Non ho Blu. Ho ricevuto il dono di vederla crescere, di aiutarla, di farmi piccolo e annullarmi, quand’è il momento, e dirle che no, non deve avere paura del buio, anche se io ce l’ho. Quel pezzo di me è dato, però, non m’appartiene più. Quindi io sono tutto ciò che ho.)
Ora, però, temo tutto sparisca. Ho fallito e quindi so di poter fallire ancora. Aver vinto la guerra non significa che non potrei viverne un’altra. Del resto ne abbiamo avute due di Guerre Mondiali – e abbiamo rischiato la Terza, dicono coloro che di USA e Cuba se ne intendono. Gli crediamo?
Mi chiedo quanta importanza abbia, con tutte quelle tuttora attive. Che non siano definibili “mondiali” non mi pare che sia da celebrare come una fortuna.
Divago… Dicevo, l’esperienza è importante. Oggi cammino lungo un sentiero preciso: la vita è una prospettiva. Se non vedo guerra, guerra non verrà. Se non credo allo scontro, vivrò in armonia. Se decido di essere sereno durante una pandemia, la serenità mi abbraccerà e mi terrà stretto. Al caldo.
E se non sarà così, quando l’abbraccio si scioglierà sarò perlomeno stato abbracciato per un bel po’, prima. Che senso ha star tanto lì a preoccuparsi di ciò che fu e di ciò che sarà?
Io sono. Qui e ora.
Se tanto mi dà tanto, perché non credere alla legge dell’attrazione e pensare a tre obiettivi, anziché a due? Perché non viverli, magari si manifestano?
Sto sorridendo. Qualcuno penserà a un delirio. Sono sobrio, non fumo più marijuana da molto ormai – tabacco da ancora di più – e so esattamente di cosa sto parlando.
Ma non mi devi credere, cara lettrice e caro lettore.
Oggi, mentre camminavo tra i miei amati alberi di Collserola, il mio pensiero è stato che ascenderò. Non sarà una lotta interiore, se saprò viverla come la meravigliosa, fantasmagorica espressività che mi contraddistingue come essere umano dedito a raccontare storie di mondi che non esistono, riflesso di quello in cui abbiamo il privilegio di respirare.
Mia è la magia d’incontrare persone che esistono soltanto dentro di me, ma che come per incanto finiscono per vivere anche dentro di te, cara lettrice. E caro lettore.
Uno scrittore è un mago. Esiste quando fa magie.
Se smette di farne appascisce come un fiore privato dell’acqua.
Giocherò con le parole e le renderò rugiada e pioggia e sole, a volte brina, ma anche neve che mi schiaccerà finché, in primavera, quando il tepore la scioglierà, le mie radici mi doneranno la forza di rinnovarmi e salire verso l’azzurro del cielo. Nel blu dipinto di blu.
Il modo più sensato di vivere è esprimersi fedelmente.
Ricorda. Niente e nessuno devierà il tuo corso, se non lo permetterai.
Conclusione
Non sarà che l’entrata è anche l’uscita?