Perché il Coronavirus è un bivio per l’umanità

Un approccio spirituale alle nostre paure

3 Settembre 2020

Nota: l’articolo originale è stato scritto in inglese in data 12 marzo 2020

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Questa volta non attendetevi una prima linea che va dritta al punto.

Ho scritto spirituale ed era voluto.

Il mio è un messaggio. Non lo getterò lì, come nulla fosse, anche perché se pretendete che sia rapido e indolore non siete pronti a prenderlo sul serio. Sono pronto a salutare chiunque non sia interessato a noi come specie e non si cura della nostra evoluzione come società planetaria. Credetemi, non giudico nessuno, ma la mia prospettiva è assai diversa.

Ovviamente lo leggerete soltanto se così vi pare, ma è altrettanto ovvio che io speri lo leggiate tutto. È importante. Non sono io che ve lo chiedo, né voi che me lo concedete, infatti.

Si tratta di noi.

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Sono italiano.

Vivo in Spagna, oltre le colline che sovrastano Barcellona, nel Vallés Occidental, in una cittadina chiamata Sant Cugat. Mia moglie, venezuelana, e io siamo felici qui. Nostra figlia è nata alla Clinica Dexeus e ha 6 anni.

Un collega catalano: «Oh, la Dexeus! Lo stesso ospedale dove ha partorito Messi.»

Io: «Davvero? Messi ha partorito? E cos’era, il suo primo pallone?»

Così è la Catalogna. Tuttavia questa terra è molte altre cose. Per esempio qui il melting pot è importante. Se osservi i volti mentre cammini in città, in centro a Barcellona, vedi parecchi turisti, eppure molti sono in realtà stranieri residenti. Come me.

Cittadini del mondo, che vivono il presente al loro meglio in una smart city. Storia, cultura, tecnologia, diversità, milioni di persone che respirano tutte assieme.

In ufficio il mio dipartimento è composto da spagnoli, tedeschi, francesi, indonesiani, italiani, cinesi, giapponesi e olandesi. Questa è la sua composizione attuale, ma abbiamo avuto altre nazionalità con noi in passato. Il nostro responsabile è inglese – abbandonato in territorio nemico dopo il Brexit.

Siamo un gruppo globale di informatici, che parla al resto del mondo quotidianamente. Durante i passati dieci anni per me è sempre stato un piacere per un semplice motivo: vivo un po’ del mio credo.

Siamo uno.

Tu e io siamo a un bivio

Immobili, fissiamo le indicazioni. Le due principali direzioni sono Evoluzione e, sul lato opposto, Escalation. Di fronte a noi c’è una stradina che taglia attraverso i campi. La freccia dice Declino. L’ultima che leggo è quella che punta ai passi già compiuti, e dice: Non importa, è fatta.

Non c’è nessuno in giro. Ci siamo soltanto noi e il crocevia. Una brezza gentile soffia tiepida lungo la pianura. Il nostro zaino è grande, pesante, e fa caldo sotto il sole. In questi giorni da Cambio Climatico scotta la pelle. Comincia a essere fastidioso.

«Possiamo prendere una decisione rapida?»

«Non vedo ombra in nessuna direzione…» commento.

«Sono stanco», dici. «Voglio smetterla di camminare e mangiare, fare un pisolino.»

Anch’io, penso, ma resto in silenzio e osservo alla nostra sinistra. Evoluzione è una strada ripida e tortuosa, con saliscendi. Sembra dura da percorrere e punta a un’enorme catena montuosa con le cime innevate.

Giro la testa verso destra e vedo una strada retta e pianeggiante che corre verso l’orizzonte. Mi chiedo se scorgo un mare laggiù o se è soltanto il deserto sconfinato a giocarmi un brutto scherzo. Escalation? mi chiedo. Un sopracciglio mi si solleva senza chiedere permesso.

Guardo davanti a me e dico: «È la prima volta in vita mia che mi va bene un declino.»

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Alcuni giorni fa ho chattato con una mia amica. Vive in Italia del nord, in Lombardia, l’epicentro italiano della pandemia. Mi ha scritto che la situazione è drammatica. Lei è una traduttrice e interprete di professione, ha esperienza. “Hanno cancellato tutti gli incontri e i convegni. Non c’è lavoro. E non sono soltanto io.

Non la conoscete. È una delle persone più positive che abbia mai avuto la fortuna di conoscere. È sempre stata una persona solare, con una personalità brillante. Eccola lì. Per la prima vera volta in vita mia l’ho sentita giù.

Continuava a tornarmi in mente, così l’ho contattata alcuni giorni fa per sapere come stava. Non lo sapevo, ma sua padre ha il cancro ed è ricoverato in ospedale. In aggiunta, ora è stato infettato dal Coronavirus.

“Non è il Coronavirus, è il cancro. Era già grave”, mi ha scritto.

Sta morendo e non può stargli vicino, ho pensato.

“Non è per me”, ha aggiunto. “Sono dispiaciuta per lui.”

Stavolta non è il bene contro il male

Si tratta di noi contro noi stessi. E siamo a un bivio. Non andremo tutti nella stessa direzione, perciò conta dove va la maggioranza.

Evolveremo o correremo verso un cupo futuro?

Tutti leggiamo o guardiamo le notizie mondiali. Ognuno di noi vive la rappresentazione dei drammi e delle tragedie che i giornalisti scrivono e mostrano. Pochi testimoni in salvo e masse di vittime, questo è il riassunto a parole.

Mentre osserviamo siamo sensibili, ma la portata dei nostri buoni sentimenti verso il prossimo aumenta o diminuisce con grandi fluttuazioni, dipendendo da chi è il prossimo.

Ora il Coronavirus ci preoccupa. Noi, i buoni. I cittadini del mondo che non sono violenti, qualsiasi tipo di violenza vogliate pescare dal nostro grosso mazzo di carte. Non è questione di combattere un qualche male.

Il “male” sono le persone comuni. Tutti noi.

Per questo siamo a un bivio.

Tutto è cominciato a Wuhan, una città sconosciuta ai più fino a due mesi fa. Eppure sapete che? “I cinesi mangiano ratti!” ha detto l’altro giorno il governatore del Veneto, Luca Zaia. Poi ha detto che è stato frainteso. È curioso come molti politici parlano. Avrebbe dovuto dire che è stato un idiota.

Sfortunatamente per lui, dopo la Cina, il nuovo epicentro del contagio è stato l’Italia, la regione che governa è tra le più colpite.

Perché siamo così ignoranti e sgradevoli?

Qui in Spagna le persone hanno cominciato a guardarmi in modo strano. L’altro giorno sono andato a iscrivermi in palestra. Quando il ragazzo che mi stava assistendo ha saputo che ero italiano ha smesso di scrivere, s’è allontanato un po’ con la sedia e mi ha chiesto: “E… Vivi qui?

“No. Amo l’idea d’iscrivermi in una palestra in un altro Paese. Ho pensato che sarebbe stato una figata su un altro pianeta, ma purtroppo non è possibile”, gli avrei risposto. Sapete, una di quelle risposte che sogniamo di dare quando è troppo tardi.

Invece ho visto la sua faccia e come ha spalancato gli occhi, con le pupille che quasi lampeggiavano per l’improvvisa contrazione. Ho visto paura vera, sicché gli ho risposto con un sorriso: “Sono cinque anni che non vado in Italia.” Sono stato gentile e ci ho riso sopra, ma quando sono tornato a casa il ricordo m’è parso spiacevole.

Una mia collega mi ha detto che una sua amica cinese è stata molestata per strada più volte in pochi giorni – e che ora è incazzatissima. Sicuro l’amica ha una famiglia in Cina, così ho pensato alla mia in Italia. Mio padre vive solo. Se gli succede qualcosa non posso andare, perché non tornerei indietro da mia moglie e mia figlia.

Non è sufficiente patire la situazione? Non capiamo che siamo tutti nella stessa barca? Perché siamo così freddi l’un l’altro?

Perché discriminiamo con tanta facilità?

Non provo alcun sentimento negativo per il ragazzo della palestra, sarebbe stupido. Sono preoccupato. Vero, è da tempo che lo sono. Alcune settimane fa stavo in ansia per il cambio climatico, per le guerre, per la dittatura nel Paese di mia moglie, per la fame nel mondo, per gli uomini che abusano e uccidono le donne… per le atrocità che soffrono i bambini.

Sì, è vero. Ero preoccupato per problemi reali.

Ora mi preoccupa se siamo capaci di affrontare quegli stessi problemi come una società planetaria. Tutti i nostri limiti sono affiorati nell’arco di poche settimane. È di fronte ai miei occhi, tutt’attorno a me. È una escalation, perché è più grande dei problemi in sé. Ed è una vergogna.

Abbiamo intenzione di dividerci anche al cospetto di una minaccia globale? La minaccia non guarda nessuno in faccia. Colpisce ciecamente ovunque trovi una via.

Qual è il senso di quest’atteggiamento generalizzato?

Dobbiamo osservare meglio e riflettere

In Italia assieme ai medici ci sono psicologi che aiutano le persone infette. La maggior parte delle volte noi esseri umani ci sentiamo schiacciati dalla responsabilità d’aver aiutato il virus a propagarsi.

Anche se non ne abbiamo colpa.

Potrei essere io, potresti essere tu. Forse lo siamo già entrambi, dato che l’incubazione è di 14 giorni. Semplice.

Dobbiamo veramente rivoltarci l’uno contro l’altro?

Ciò che abbiamo il dovere di fare è seguire le indicazioni mediche per evitare il contagio. Per una volta dobbiamo considerare il fatto di informarci una questione di vita o di morte, non qualcosa di noioso da schivare perché dobbiamo correre all’happy hour del nostro bar preferito. L’ignoranza è sempre stata la nostra peggior nemica.

Cosa pensiamo che accadrà con il cambio climatico e le temperature in aumento?

Nel 2004 la SARS aveva una mortalità del 10%. Nel 2012 la MERS aveva una mortalità del 35%: uno su tre, per fortuna che scoppiò nel deserto! E ora COVID-19, anni 2019/20. Un’epidemia ogni 8 anni.

Gli esperti dicono che una pandemia con un alto tasso di mortalità non è questione di “se”, ma di “quando”.

Oggi affrontiamo una mortalità del 3,4%. Sicuramente è più bassa ancora per il gran numero di casi non registrati, con pochi sintomi o nessuno.

Davvero vogliamo comportarci come ignoranti impauriti?

Non è mia intenzione dirvi che il Coronavirus non è pericoloso o che non uccida. La mia cara amica lo sa e così molte altre persone che hanno perso i cari vecchietti. Non è che possiamo essere sconsiderati soltanto perché la maggior parte dei morti sono ottantenni. Dobbiamo rispettare il dolore.

Come ha dichiarato una donna spagnola l’altro giorno a El País: “Per voi era un numero, per me… era mio padre.”

Ho scritto che dobbiamo tutti seguire le indicazioni mediche?

Una delle due. O abbiamo paura gli uni degli altri, smettiamo di essere una società e stiamo belli al calduccio nelle nostre piccole, egoistiche tane, finendo per azzuffarci comunque. O capiamo che un virus non discrimina nel scegliere le sue vittime, che siamo un tutt’uno nel bene o nel male.

E che dovremmo amarci un po’ di più l’un l’altro.

Il bivio

«Che pensi?» mi chiedi.

«Sai che?» Mi volto e ti fisso negli occhi. Non tentenno, sorrido. «Se devo soffrire in un modo o nell’altro, preferisco soffrire nel tentativo di elevare me stesso.»

«Evoluzione?»

«Esatto. E tu?»

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