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18 Aprile 2022
Dedicato a tutti coloro i quali sono ”nati storti” in una società che vuole raddrizzarti. Loro sono Legione, ma noi non cederemo mai.
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U n giorno, quando poco più che ventenne e da qualche anno seriamente coinvolto nella scrittura, mia madre ebbe l’idea di presentarsi a mia insaputa a un rinomato critico letterario italiano.
Alla fine di un evento pubblico, gli si mise di fronte e gli chiese gentilmente di dare un’occhiata ai miei scritti.
Quello li sfogliò, lesse qui e là, poi li rimise in mano a mia madre e le disse: “Mandi suo figlio in psicanalisi”.
Mia madre s’infuriò – santa donna –, ma soffriva d’ansia e, quando tornò a casa, mi raccontò l’episodio, temendo per la mia psiche. Io liquidai la cosa con sdegno, ma la verità è che ci rimasi parecchio male.
Qualche anno dopo, quegli stessi scritti vennero pubblicati da uno degli editori che hanno fatto la storia della letteratura di genere in Italia. Si trattava della mia trilogia d’esordio, che all’inizio degli anni 2000 arrivò finalista al Premio Italia – ovvero fu tra i testi più votati dai lettori di letteratura di genere italiani del tempo.
In sintesi: autore, editore e lettori, tutti da psicanalisi!
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Farsanti
Ora, immaginati un critico letterario che si trova di fronte una madre e si permette, sfogliando per un paio di minuti scarsi un testo voluminoso, di credere che l’autore abbia turbe psichiche. Sarebbe sufficiente come supponenza, ma costui non si limita – come ogni presuntuoso, del resto – e consiglia alla madre di mandare il figlio in analisi.
Contestualizzate il fatto, senza leggervi un mio pregiudizio verso la psicanalisi, che non esiste. In Italia, a fine anni ’90, credere che qualcuno necessitasse di psicanalisi equivaleva a definirlo fortemente disturbato. Quello era il vero giudizio del rinomato critico letterario.
Essendo parte in causa, ho chiesto a un amico come lui lo definirebbe, uno così. Per questo articolo, volevo evitare di schiacciare il giudizio sulla mia prospettiva e perciò dar voce a un punto di vista esterno alla vicenda.
La sua risposta è stata: “Un pericoloso imbecille”.
Non mi dimenticherò mai di quell’episodio, come non dimenticherò mai quando, anni prima, una mia professoressa di lettere mi chiese: “Ma lei ha turbe psichiche, che si taglia i capelli così?” Ora, il mio taglio di capelli era a spazzola per comodità, perché facevo molto sport.
Di nuovo, inquadriamo la questione. L’intellettuale di prim’ordine e insegnate era iscritta al Partito Comunista Italiano (PCI). Per farvi capire bene quale passione politica l’animava, il giorno in cui il partito si scisse quella entrò in classe piangendo. Che importanza ha? Be’, se non eri un cappellone – e, aggravante, eri figlio di un imprenditore di successo – allora eri il nemico.
Il giudizio di quella professoressa fu classista e il suo era un ideologismo miope. Sono entrambe cose che non fanno di una persona un’insegnante di valore, bensì un’altra pericolosa imbecille.
D’accordo. Ora, chiunque incontra pericolosi imbecilli. Evitarli tutti è impossibile, perciò conta come si reagisce alle loro certezze. I giudizi di cui vi ho raccontato non valevano un soldo bucato; il problema è che gentaglia di questo tipo può fare danni irreparabili.
Eppure io non li definirei “pericolosi imbecilli”, come il mio amico. La mia definizione è che entrambi fossero dei farsanti: ricoprivano un ruolo in tutta evidenza sovradimensionato alle loro reali capacità.
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Essere tutto d’un pezzo
Ora, la cosa più assurda di quanto raccontato è che io mi consideravo un artista. Ovvero, ero proprio il tipo di persona che constrastava certi aspetti culturali tipici del Capitalismo. Litigavo, in casa, proprio con mia madre e con mio padre, tutto teso ad affermare la mia essenza. Ero un maestro di resistenza passiva!
La mia ex professoressa di lettere avrebbe dovuto aiutarmi, anziché affossarmi: pur non essendo politicamente schierato, non ero un nemico, ma una sorta d’infiltrato. Miope, per l’appunto. Tipico di chi non è all’altezza.
Già negli anni ’90, infatti, gli artisti venivano considerati degli illusi che avrebbero fatto la fame, specie in famiglie benestanti come la mia. La società li giudicava e additava, convinta di dover far rinsavire qualsiasi giovane avesse velleità artistiche – e il processo cominciava tra le mura di casa, sì.
Naturalmente, se facevi successo, ti coprivano di lodi. Non è un’incoerenza: il Capitalismo ama le persone di successo, anche se sono artisti.
Ma tu, Sig. Nessuno, salvo poche eccezioni, dovevi essere un ingegnere, un avvocato, un chirurgo estetico, eccetera. Scrittore? Farai la fame. Pittore? Per favore, sono tutti alcolisti! Musicista? Non voglio che frequenti quell’ambientaccio: sai quanti di quelli famosi si drogano?
“Eh, sarà che questa società è una tal merda che, una volta arrivati lì, i fortunati disgraziati sono a pezzi”, pensavo io. Non era questione di giustificare o sminuire il problema – e i drammi reali, che tutti conosciamo. I miei pensieri erano conseguenti alle insensatezze che i “maestri” di turno mi sputacchiavano in faccia nel tentativo di farmi rinsavire.
“Devi fare così, devi fare colà… Sono io l’adulto, tu non sai!”
A cosa serve svilire, denigrare; soffocare sul nascere. Se un albero nasce storto, non lo raddrizzi. L’atteggiamento della nostra società vorrebbe rappresentare una specie di selezione naturale, quando invece è un sopruso: in un mondo di dritti irregimentati quelli storti sono una provocazione, quindi vanno tagliati.
Pochi vedono un albero diverso, bello perché unico.
Molti vedono uno cosa storta. Sbagliata. Inutile. È possibile che non si siano mai guardati veramente attorno attraversando un bosco, altrimenti avrebbero capito che una collettività ha successo grazie all’apporto di tutti i singoli. La vera forza è la collettività, non l’omogeneità.
Non oso pensare a quanti ragazzi non abbiano saputo reagire e così ceduto a questa sorta di lavaggio del cervello perbenista. Quanti hanno accettato un destino inadatto alle loro innate capacità? Quanti ancora hanno rinunciato alla parte più vera di sé? E quanti si sono assueffatti all’apparenza, alle maschere e ai falsi miti, come quello della stabilità economica, del trovarti un lavoro che offrisse una ”reale prospettiva di vita”?
Quanti, insomma, hanno sostituito i sogni colla zona di comfort?
Quanti? Non giudico, no. Se costoro vivono una vita felice, va benissimo così. Forse è migliore della mia, che non ho mai accettato grandi compromessi e sono ancora qui, a cinquant’anni, che spero di farcela, in un modo o nell’altro.
Loro se la godono, mentre io sono un frustrato.
Sì, direi che la definizione calza a pennello: frustrato. Non mi sono mai venduto, però, né mai mi sono arreso per davvero. Ogni tanto lo dico, di non crederci più; vero. Ma non aspettarsi nulla non significa smettere di provarci. Che nessuno sia così frettoloso nel liquidarmi.
Non è questione di arrendersi. Si rallenta, si stringono i denti, ma quelli come me hanno un solo modo di stare al mondo: essere sé stessi. Se il destino si rivelerà avverso, moriremo nell’intento.
Ahimè, c’è di peggio, rispetto a un frustrato. C’è qualcosa di più triste e doloroso. Parlo di quelli che sono incapaci di giungere a compromessi che equivalgono al suicidio della ragione, perché troppo puri, e che infine non reggono alla pressione. Ecco; quelli finiscono male. Molto male, di solito. Ed è un gran spreco d’umanità di cui qualcuno dovrebbe render conto.
È questo quello che non capisce la società: la radicata, pulsante disperazione di chi considera la propria esistenza una cosa enormemente più stimolante di una vita corporativa del cazzo, ad esempio. Non è questione di giudicare male quelli a cui piace, ma di pretendere rispetto se si desidera qualcosa di diverso.
È semplice. C’è chi crede alle cose concrete e chi crede all’immaginazione. Perché mai i primi si prendono così tanto la briga per schiacciare i secondi? Si facessero i fatti loro.
Cos’è che dà così fastidio se una persona non si vuole omologare?
E non è questione di rendersi conto di essere fortunati, rispetto alla stragrande maggioranza degli esseri umani. Certo che siamo tra i più fortunati! Io ti scrivo seduto dal bel mezzo del Primo Mondo, stipendiato da una multinazionale. Ma è altrettanto certo che chi è più sfortunato, eccettuato chi vive nella miseria, molte volte sta meglio di noi; interiormente, dico.
Lo ribadisco: ci sono poveri enormemente più soddisfatti ed equilibrati di noi benestanti. Il che dovrebbe farci riflettere, oltreché vergognare.
Perché accade? Non lo so con certezza. Ma so che è un’oscenità che per non rischiare un po’ si stia con le mani in mano e si muoia prima del tempo – sempre interiormente, dico.
Perché non facciamo qualcosa sul serio per migliorare questo mondo, migliorando le nostre rispettive vite? Sottovalutiamo il potere di un essere umano realizzato.
Lo sottovalutiamo in troppi.
Non si tratta di denaro, successo o potere. No. Il punto sarebbe che ognuno avesse la reale opportunità di vivere la vita a cui è incline per brillare di luce propria, migliorando inevitalmente l’esistenza di chi le sta o gli sta vicino.
Più chiaro ancora: se vivi appieno, il tuo entusiasmo sarà contagioso. Se ti dicono che sei sbagliato, invece, a essere contagiosa sarà la tua depressione.
A chi conviene un mondo di depressi?
Sia chiaro, lo so: niente è dovuto, il mondo non è fatto per te, se aspetti che il fico ti cada in bocca. Ma bisognerebbe smetterla di giudicare, deridere e osteggiare chi non è come te.
Ebbene, il mio intento non è puntare il dito, semmai guardarmi allo specchio. Allora, gira e rigira, considerata la realtà, ti pongo una domanda per interrogarmi: se non sei capace di farlo per te stesso, cosa pensi di essere capace di fare per gli altri?
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L’orizzonte dei mediocri
“Mandi suo figlio in psicanalisi.” I fatti gli hanno risposto. Ma a me, te lo dico sinceramente, non interessa di quello lì. Il mio cruccio non è lui, ma ciò che lui rappresenta.
Insomma, il mio nemico è la prospettiva, l’orizzonte di cui blatera questa gentaglia, intellettualmente volgare e piccola. Sono loro pazzi, che mentono a sé stessi, convinti che o rientri nella banalità dei mediocri o sei disturbato.
Be’, al tempo, io non capivo proprio cosa ci trovassero di giusto in un simile orizzonte: mi sembrava di una noia mortale. Nessuno poteva realmente ambire a un mondo del genere! Omologato, piatto, in cui niente è ”diverso”, ma tutto è “sbagliato”. A vent’anni, a me sembrava qualcosa da cui scappare a gambe levate. E se per un po’ eri costretto a vivere quella cosa tremenda della cui bontà volevano convincerti, chiamandola “il tuo futuro”, t’imponevi di non smettere mai di lottare per sostituirla con qualcosa di degno, ovvero con un “presente sensato”.
La vita non poteva essere quella cosa deprimente.
Ma ero giovane e oggi penso molto di peggio: la vita vista attraverso quell’ottica è un insulto all’intelligenza, un surrogato purtrido di quello che dovrebbe essere. È una bestemmia, perché la vita è un dono!
“La vita è dura, ragazzo, altro che dono. Devi restare coi piedi per terra”, mi dicevano. Va bene, la vita è dura, ma non per questo dev’essere uno schifo inenarrabile.
Eppure per me lo è stata, dura, a livello professionale, per trent’anni. È stata molto dura per me, proprio per quello che io credo di quella prospettiva, per via del modo in cui la osservo con gelido distacco, mentre si muove strisciante tra le persone, intrappolandole.
Sono stato costretto a subirla a lungo, spesso inghiottendo una saliva amarissima, fingendo di non essere nauseato, salvo poi vomitare fiumi di parole acide, vittima delle mie mille frustrazioni.
Ribadisco, dipende da ognuno di noi affrancarsi da quella visione lugubre dell’esistenza. Se io finora non vi sono riuscito materialmente, non significa che le cose stiano come gli intellettualmente volgari predicano. Che nessuno si confonda: non mi hanno sconfitto soltanto perché non ho ancora vinto. Perderei la guerra se e soltanto se abbandonassi la mia fede nella possibilità del meraviglioso.
La mia mente va alla lunga lista di episodi che certamente non mi hanno fatto del bene. Il critico letterario e l’insegnante di lettere sono soltanto due esempi calzanti, perché c’entrano con la scrittura. Tuttavia ne avrei centinaia con cui annoiarti.
E so che, come me, tu ne avrai altrettanti. Nessuno è immune ed è ovvio il perché.
La società è un’enorme leviatano. Si agita come un ossesso e ha il ruolo del deterrente psicologico. Se non sei allineato, ti aggredisce. Ti schiaccia e ti rende quasi impossibile reagire a dovere. E, ogni volta che provi a scrollarti di dosso tanta pochezza di vedute, c’è chi spegne la luce, perché è stato messo lì apposta, vicino all’interruttore. E ti deride: “Ora prova a uscire da qui, se ci riesci!”
Si adoperano per omologarti, congratulandosi per i tuoi finti successi, e godono dei tuoi fallimenti in modo silenzioso, magari sussurrandoti mellifluamente che gli dispiace. Balle! Le loro verità non valgono il fiato utile a pronunciarle, figuriamoci il tempo in cui te le devi sorbire, tuo malgrado.
Purtroppo questi agenti della mediocrità sono legione e ti accerchiano. Si sono adattati. Hanno fatto proprie le regole che gli hanno inculcato, create per soggiogarli e, quindi, chi sei tu per essere migliore di loro: prostrati!
Credo che la maggior parte non ne sia nemmeno consapevole. Quindi ti avvolgono con una sorta di propaganda di sistema, assediandoti, asfissianti perché credono tutto vada bene dalle loro parti. Gli fai quasi pena e vorrebbero salvarti!
Ci vuole un’intera catena montuosa di forza interiore per continuare a sognare ancora, quando quasi tutti ti dicono che i tuoi non sono sogni, ma illusioni.
Spesso sono sinceramente preoccupati. O, a volte, ti giudicano un buonanulla. “Le tue sono fantasie. Stai coi piedi per terra, ragazzo.” E con quella tipica volgarità intellettuale che li contraddistingue, mascherata da condiscendenza, ti dedicano qualche secondo d’attenzione. Finalmente, con quel sorrisetto saputo, tipico di chi imbecille lo è per davvero, ti dicono: “Ma certo, provaci. Capirai. Poi ne riparliamo. Eheh…”
Confidano nel leviatano, da bravi divorati.
Strano, però, son trascorsi trent’anni e sono ancora qui, a raccontarti di come li percepisco io. La loro è una prigione e io sono un fottuto testardo che evaderà. Non ho alcun dubbio in merito.
E tu che mi leggi, se sei come me, allora facci un pensierino.
Pianifica la tua fuga.
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La fuga
Già allora, poco più che ventenne, stavo scappando da un presente sin troppo soffocante.
Per me quel sentiero era concreto e si srotolava sinuoso e netto nel sottobosco. Ciò che scrivevo non era mera letteratura di genere. I miei scritti rappresentavano una direzione precisa, un vettore svincolato da qualsiasi condizionamento, e nel contempo erano un’affermazione. Quando scrivevo, ero espressione immacolata.
Imprescindibile. Inconfutabile. Ero io.
C’era chi lo chiamava “inutili fantasticherie”, chi gli dava perlomeno una dignità ludica, chiamandolo “sana evasione” e chi, come le donne e gli uomini che più ammiravo, lo consideravano un percorso imprescindibile, essenziale per lo sviluppo non soltanto dell’individuo, ma anche della nostra civiltà tutta; lo chiamavano “immaginazione” e lo anteponevano a qualsiasi altra cosa.
A me i primi sembravano insultare e i secondi sottovalutare, mentre i terzi li percepivo come esseri affini – pur se consapevole di dover camminare a lungo per temprarmi e potermi finalmente dire un vagabondo di professione, come loro.
Insomma, uno scrittore.
Di una cosa però ero certo: che quel sentiero fosse reale ed esistesse per condurre me. Sin da quando lo scorsi, la prima volta, e decisi d’imboccarlo, non dubitai che fosse il miglior invito che la vita m’avesse mai rivolto.
Era, cioè, l’orizzonte più entusiasmante cui potessi aspirare. Una cosa sommamente più emozionante di quello schifo che mi prospettava la società – che poi era quello di cui mi parlavano i “maestri”.
Nessuno comprese il valore che acquisì la scrittura nella mia vita. Non era soltanto un rifugio, perché, di nuovo, considerarla soltanto una difesa era far torto al mio talento. Ovvero al mio potere creativo e quindi costruttivo.
Era una prospettiva, la mia, quel moto genuino e totalizzante tipico di chi scopre in giovane età qualcosa che dà un senso alla propria esistenza.
Scorsi una cosa che non soltanto aveva senso, dunque, ma che diveniva significato. Qualcosa per cui valeva la pena sfidare l’opinione “realista” di tutti e tirar dritto. Era una verità che stava e sta ben al di sopra di chi pensa di conoscerti e aiutarti, quando invece capisce poco e ti ostacola o perfino ferisce.
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Oggetti smarriti
Mi sono perso così tante volte grazie alla scrittura, abbandonandomi e fluendo, che ora comprendo chi sono.
Questa è la verità. E chi non la vive sulla propria pelle non capisce. Non sa. Continua a mentirsi senza posa, vittima di sé stesso e davvero incapace di comprendere quello che gli dici.
Come fa il carceriere di sé stesso a comprendere la libertà? Come fa a capire che essere rinchiusi in una prigione non significa essere prigionieri? Che la libertà è una prospettiva interiore, prima che una realtà fisica?
Non può. Vede soltanto ciò che gli è stato inculcato.
Io sono un essere umano e sono perso, ma vedo il sentiero e so come percorrerlo. Purtroppo sono pure circodanto: la società ti permette al massimo di essere un oggetto smarrito, infatti. Se invece sei perso e non ti si può ritrovare, significa che sei un disadattato.
Se ti sei perso, insomma, devi accettare il concetto di redenzione. Qualora il tuo modo di stare in società non includa che tu possa essere ritrovato, redento, divieni un fastidio, un peso. Sei inutile e perciò vieni accantonato.
Se non accetti le regole, sei un fuorilegge.
“Ragazzo, la vita non è così, come tu la vorresti.” Ti ripetono cento volte di rimetterti in carreggiata. Che devi rigare dritto. Che le tue sono fantasticherie che non hanno senso d’esistere e non ti porteranno da nessuna parte.
Dove vuoi andare?
Lontano.
Quanto lontano pensi di arrivare?
Tanto.
Ma chi ti credi di essere?
Sono chi sono. Ed è per questo che non posso essere fermato.
Ancora pensi di poter cambiare le cose?
È molto semplice: nessuno può farmi essere chi non sono, se non voglio. D’ora in avanti cambierà tutto attorno a me.
Cioè?
Sento d’aver trovato la risposta che stavo cercando. E ho un piano.
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Alcuni alberi del nostro umano bosco mi hanno parlato, donandomi linfa.
È per questo che so di non essere solo.
“Quand’è che il futuro è mutato da una promessa a una minaccia?” ― Chuck Palahniuk, Invisible Monsters
“E all’improvviso non puoi dormire, perché il tuo cuore crede nella tua visione più di te.” ― Sanita Belgrave
“La follia di una persona è la realtà di un’altra.” ― Tim Burton
“Nessuno ci salva, se non noi stessi. Nessuno può e nessuno dovrebbe. Siamo noi a dover percorrere il sentiero.” ― Gautama Buddha, Sayings Of Buddha
Di persone come tu racconti se ne incontrano tante. La cosa divertente è smontarle con i fatti.