Una schietta e felice digressione sulla (mia) scrittura

Ho concluso la prima parte della revisione finale di “Senzanome”. Ti parlerò di me, ma sono certo che qui e là qualche spunto interessante vi sia.

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22 Gennaio 2021

130.000 parole suddivise in 19 capitoli, per un totale di oltre 800.000 battute. 440 cartelle standard revisionate in 30 giorni esatti, a un ritmo di 4.300 parole al giorno – non le ottimali 5.000 di media, come speravo, ma ben al di sopra del minimo imposto di 3.000.

Sono soddisfatto. Finalmente mi sono tolto di dosso quel peso insopportabile che m’impediva di affrontare l’ultimo romanzo che scrissi prima di sprofondare.

C’era troppo dolore personale, lì. Troppa energia bloccata, compressa in un angolo, e quando mi avvicinavo avevo il timore che implodesse. Non era la storia, era l’aura che la circondava.

Senzanome” è legato al periodo della mia vita in cui crollai. Essere riuscito a vivere il testo, oggi, significa aver superato una sindrome post-traumatica da stress legata al vissuto di quando lo scrissi. Quegli anni sono stati la mia guerra – interiore.

Mi sono rasserenato, rinfrancato e liberato.

Un passo importante.

In me qualcosa è scattato. Non soltanto ho affrontato il testo con con la dovuta abnegazione – fondamentale in scrittura. E non è nemmeno stata una “mera” questione di impegno mantenuto nel tempo. L’ho fatto con gioia, divertendomi, provando un piacere che non provavo da tempo nel cesellare il mio racconto.

Cos’è accaduto? Non lo so con precisione. Lo capirò più avanti, m’immagino, perché la scrittura è così: dà segnali inequivocabili, ma per interpretarli ti ci vuole un po’ di tempo. Ne conosci il segno; non ne conosci l’origine, né quali conseguenze avrà, finché il fatto non si deposita sul fondo, si raffredda e infine assetta. Soltanto allora riesci a osservarlo con distacco e l’analisi si fa accurata.

Quanto posso dire oggi è che le mie sensazioni sono ottime.

È strano aver vissuto con tale facilità un processo che non più di sei mesi fa m’era impossibile affrontare. La spiegazione è custodita dal nuovo tratto del mio percorso di vita – che tra me e me chiamo scherzosamente “new wave”.

Se mi segui da un po’ di tempo, saprai di cosa parlo. Se no, ti dico che sto parlando del mio rialzarmi con grande fatica a partire dal 2018 dopo anni di oscurità.

L’ho già scritto altrove, ma giova ripeterlo oggi: considero la fase di recupero conclusa con il 2020.

Gli scrittori sono tipi introspettivi, di solito. Non vedo come si possa scrivere se incapaci di guardarsi dentro, infatti. Ebbene, sono certo che tu lo sappia, non è così semplice comprendersi.

Il fatto che io sia così abituato a parlare attraverso la scrittura di me stesso non significa che quanto scriva sia il Verbo. La verità è spesso più semplice e nel contempo più complessa di come uno se la immagina.

Allora scrivere che sono rinato, che tutto sta procedendo per il meglio – come ho scritto più d’una volta di recente –, dà morale e crea quel pizzico d’illusione che aiuta a procedere, a non fermarsi e a superare le giornate in cui proprio ti sembra di non avere la forza di scrivere. E non è che scrivere sia dura, è la vita che è dura a tratti. Insomma, tu lo scrivi, ma dentro, nel profondo, sai che le parole non sono fatti.

I fatti hanno assai più sostanza delle parole. Allora oggi guardo indietro, osservo i miei fatti recenti e mi pongo una domanda netta: “Andrea, ci sei ancora o ti stai ingannando?

Scrittrice o scrittore che si rispetti non ammette menzogne. Magari non sparge la propria verità ai quattro venti, se troppo intima. Eppure allo specchio, quando scruta i bagliori sfuggenti della propria essenza brillare a una profondità incalcolabile, lì, nel pozzo senza fondo che uno sguardo è, si dice la verità. Osserva quella luce e la riflette, perché questo fa chi scrive: vede. E che quella chiarezza sia soltanto sua è sufficiente.

A volte sospetto i migliori narratori siano i più abili a mimetizzarsi.

Bene, ora, a domanda si risponde.

Ecco, una revisione come quella che ho appena terminato è un fatto. Così come altri fatti sono stati le ”riletture integrali” del Primo Ciclo Minore e de Il giorno dopo, perché rileggere, annotare, sciogliere i nodi presenti non è cosa da poco, quando le pagine sono quasi duemila. A questo si aggiungono due altre prove inconfutabili: la revisione del testo esistente de Il giorno dopo – la prima metà della prima stesura – e la scrittura di quattro nuovi capitoli, quel riaffacciarmi cauto ed emozionante alla mia narrativa Fantasy. Quelle erano le mie prime nuove righe di testo dopo quindici anni!

Per come la vedo io, durante gli ultimi, strepitosi trenta giorni ho sublimato il processo di ritorno alla vita.

Di scrittura parlando, non potevo sperare in un miglior inizio per questo 2021. Andrea D’Angelo lo scrittore c’è ed è più vivo che mai.

Una revisione fredda come la morte

Si dice che sia bene far decantare una prima stesura, prima di affrontare la sua revisione. Bisogna, cioè, affrontare i propri sforzi “a freddo”, per evitare che l’attaccamento alla storia narrata (vissuta) impedisca un approccio spietato al testo.

Ebbene, passati più di dieci anni dall’ultimazione di “Senzanome” – da quella che al tempo credevo fosse la sua versione finale, forse perché ormai sfinito e prossimo all’oblio –, posso dire di essere stato “freddo come la morte”.

Spietato, chirurgico, fastidiosamente pedante a scapito dell’Andrea d’allora. Nessun sadismo, soltanto un approccio giusto e sufficiente.

Spesso mi sono ritrovato a pensare: “Incredibile come, senza scrivere una sola riga in italiano, senza leggere in italiano e praticamente senza parlare italiano durante l’ultimo decennio e più, io abbia incontrato con enorme facilità così tante imperfezioni e migliorie in un testo che scrissi quando la mia italianità era assai più presente e che, ritengo correttamente, consideravo fosse il miglior romanzo che avessi mai scritto.

Un po’ lunghetto come pensiero. Eheheh. Va decomposto, vivisezionato e riproposto. Agli ordini!

Dovresti ormai sapere che vivo in Spagna dal 2010. Il mio quotidiano è fatto di spagnolo e inglese, mentre l’italiano è relegato a rare videoconferenze con gli amici o ai messaggi scritti e vocali. Sono molti anni che leggo soltanto in inglese, in pratica, quando si tratta di narrativa. Così come sono anni che non leggo narrativa – sto riprendendo in questo 2021. È uno dei miei obiettivi, perché sento che mi manca quel tipo di lettura, dopo tanti anni di saggistica.

Potresti pensare che però c’era sempre la scrittura a sostenermi, anche se non pubblica, non manifesta.

No, non c’era. Non ho scritto per una decina d’anni. Dapprima ero distratto, mentivo a me stesso con insopportabile regolarità. Poi son divenuto apatico, perché questo accade a chi non rispetta sé stesso. Poi, quando ho ricominciato a pormi domande serie dentro di me c’era un tale caos che non ero più capace di rispondermi con la tagliente chiarezza cui mi ero abituato. E mi sono depresso. Non avevo nulla di preciso da dire. I miei pensieri avevano un sapore patetico e li osservavo con un certo sdegno, quasi che abituato al platino mi ritrovassi per le mani latta.

Che sia ammutolito, di scrittura parlando, oggi mi sembra soltanto naturale.

Così, nonostante una decade di nulla, d’italiano parlando, è andata proprio così. Il testo m’è parso imperfetto di un’imperfezione eccessiva, ben sapendo che la perfezione non esiste ed è inutile ambirvi. L’avevo creduto pronto, non lo era affatto.

Chi non nasce umile, e nella mia sofferenza io m’ero trasformato in uno stronzo presuntuoso, assorbe e metabolizza l’umiltà a forza di sbattere contro i propri fallimenti ancora e ancora, ripetutamente. Fino a quando non ce la fa più e grida “basta!” ai quattro venti, anche se sa che nessuno lo sta ascoltando e che non c’è fine. Continuerà a fallire, dacché è fallace quanto e più di tanti altri. L’unico modo per vivere bene è accettarsi e smetterla di alzare le braccia al cielo. L’ha fatto per sin troppo tempo e ha i crampi alle spalle a forza di ghermire aria. Non riuscirà mai ad afferrare una rondine, figuriamoci a toccare il sole.

Non so da dove è uscita questa chiarezza, di scrittura in italiano parlando. Ho un sospetto, però: dall’oblio sono riemerso con un’altra prospettiva, assai meno arzigogolata, più sincera e convinta di sé stessa. Più umile e, di conseguenza, assai più efficace.

Ho imparato che l’intenzione che soggiace a un’azione è ciò che ne determina il segno, il percorso e il risultato. L’intenzione è la spinta primigenia e l’atto non può prescindervi.

Fa’ attenzione alla tua intenzione, se non vuoi farti male.

Stavolta la mia intenzione era quella di rendere fluido ciò che non lo era e di eliminare il superfluo, pur se nella volontà di lasciarne la parte che corrispondeva al bello, secondo un mio proprio canone.

Sono certo che l’ultima rilettura a voce alta migliorerà ancora il testo. Poi sarò pronto per voltare pagina, finalmente. Saluterò le rondini e sorriderò al sole, felicemente terreno.

Non vorrei sembrare macabro, ma siamo tutti cibo per vermi. Lo sai. Meglio godersela senza star troppo lì a pretendere.

Gli insegnamenti tratti, per me e per te

Ho compreso alcune cose dell’Andrea scrittore che fu.

Il privilegio di potermi osservare a così tanti anni di distanza è impagabile. Consiglierei a chiunque tre lustri di pausa, come ho vissuto io – “la pausetta” come la chiamo –, per ottenere una visione di sconcertante chiarezza.

I miei pregi e difetti, in qualità di scrittore, sono emersi con impressionante nitidezza. Sono impressionato da ciò che ho visto, infatti.

Così come lo sono dalla facilità con cui ho corretto il manoscritto – lungi da me credere che il risultato sia scevro da imperfezioni. Ogni sua pagina potrebbe migliorare ancora. Ciò che ricordo, però, e l’aver tagliato anche interi paragrafi dopo tempestose riflessioni di tre secondi.

Uff, che barba. ‘sta roba è inutile. Via!” mi son detto in certi frangenti. “Sto sbadigliando… Che schifezza. Quanti sono? quattro paragrafi? Ridurli a due. Anzi no, uno solo. Che due palle…

Ridurre il racconto a ciò che m’è parso essenziale e preservare il bello è stato un piacere e non una sofferenza. Questa capacità decisionale e questa leggerezza nell’affrontare le logiche conseguenze di ciò che vedi vengono entrambe da alcune cose specifiche, che elenco qui di seguito.

L’idea dirompente del tempo perso

Come detto sono trascorsi dieci anni, durante i quali non ho scritto una riga che fosse una. Avrei potuto scrivere dieci romanzi.

Dieci romanzi. 10. DIECI.

Ho raggiunto un livello di serenità interiore che mi permette di scriverlo senza sentirne il peso, anche quando “urlato”, e ne sono profondamente felice.

Il fatto resta, però, e non avrei appreso la lezione se non facessi di tutto, ora, per rovesciare una simile dinamica autodistruttiva – ben sapendo che il modo di farlo non è stressandosi, ma volendosi bene e amando ciò che si fa.

La scrittura è amore per il raccontare o non è equilibrata.

Il tempo che passa è una realtà fisica

Quando si è giovani lo scorrere del tempo è una prospettiva. Qualcosa che si pensa e crede in modo affatto teorico, perché nulla in noi ci avverte di quanto peso abbia per davvero.

Invero, poco a poco il tempo ti schiaccia. Letteralmente. Non è un caso che i vecchietti si accorcino – sì, potremmo parlare di gravità, ma quando stavi crescendo non ti schiacciava a tal punto, vero? Anzi, ti allungavi.

Pochi giorni or sono ho compiuto 49 anni. Ovvero sono trascorsi vent’anni esatti da quando firmai il mio primo contratto editoriale con l’Editrice Nord. Ero giovane, avevo tanto tempo dinanzi a me.

Vent’anni sono una vita intera. C’è chi, ahinoi, è morto ben prima dei compierli.

Insomma, anzitutto devo smetterla di parlarne come se fosse ieri. Poi, è il caso di non mentirsi sul tempo: non ha alcuna intenzione di fermarsi. Nel mio caso è d’uopo – come diceva mio nonno! – riprendere il cammino con tutt’altro piglio, perché la prima volta molte cose non hanno funzionato e una parte consistente degli intoppi furono mia responsabilità.

Come diceva qualcuno più importante di me, testa bassa e pedalare!

Un anno di scrittura in inglese

La cosa mi ha donato una maggior capacità di sintesi e una visione di ciò che significa “essenziale”, in scrittura.

La narrativa è un’altra cosa – rispetto ad articoli divulgativi o digressioni tipo questa. Raccontare una storia permette e a mio avviso pretende maggior bellezza, ma non deve prescindere da una grande dose d’essenzialità essa stessa.

Sempre teso all’apprendimento

A quanto detto nel punto precedente, aggiungo che ho appreso qualcosa di più sul ritmo e sulle dinamiche del racconto grazie all’impegno nella saggistica durante tutto il 2020.

Eppure ero già abbastanza esperto in materia. Vero? Sì.

Non importa quanto tu sia esperto, però: non si finisce mai d’imparare e scusate la banalità. L’atteggiamento corretto è non pensare mai di essere esperti, a mio avviso, e mettersi in gioco in modi sempre nuovi. Aiuta a vivere appieno e al meglio il proprio potenziale.

All’inizio del 2021, grazie al 2020, sono uno scrittore migliore, più completo e flessibile.

Ad esempio, non è un caso che io abbia involontariamente introdotto una nuova tecnica nel mio modo di affrontare la revisione. Di tanto in tanto ho cominciato a sussurrare il testo, sebbene non si trattasse dell’ultima rilettura a voce alta.

L’ho fatto soltanto in certi momenti, quando sentivo che era importante ascoltare. Ad esempio dopo essermi soffermato per mezz’ora su un singolo paragrafo e ancora non mi convinceva.

La voce non è soltanto ritmo, è anche melodia e in parte armonia. Senti cosa stai raccontando e se lo racconti bene. Senti, leggendo il paragrafo incriminato assieme al precedente e al successivo, se quanto hai scritto è armonico. Lo senti.

La perfezione non esiste

Okay; lo so io, lo sai tu. Eppure scrivere nel solco di questa semplice, ma profonda verità è tutt’altro che un’ovvietà. Anche perché deve diventare parte di te, non qualcosa a cui ti devi forzare di continuo e che, se non ci pensi, te ne dimentichi.

La differenza che corre tra diventare consapevole della propria imperfezione e forzarsi ad accettarla di continuo è un abisso in cui molti sono precipitati, per non tornare mai più.

Sei limitato

Certe cose proprio non riesci a farle. Non importa quanto impegno tu profonda, non importa da quanto tempo provi a migliorarti, esistono sempre aspetti della scrittura che non riesci a dominare.

Sarei un genio se li dominassi tutti. Non è un caso che un punto di vista esterno sia fondamentale, in scrittura. Eppure, sicuramente grazie all’estremo distacco che mi accompagnava, ho scorto alcune cosette che m’hanno fatto storcere il naso.

Sono automatismi di scrittura, cose che si fanno perché è così che parliamo. È il nostro modo di essere, prima ancora che di scrivere. Tuttavia nel racconto non vanno bene. Spesso allungano, quasi sempre sono superflue. Parlano di te, ma la lettrice non merita di sorbirsele: è lì per la storia, non per te.

Per contro ho finalmente compreso a cosa serve (a me) avere un documento di “note generali” relative al romanzo. Vi ho scritto una lista di cosette da ricontrollare in tutto il testo col comando “cerca”, valutando caso per caso per poi toglierle di mezzo là dove sarà opportuno farlo.

Ad esempio ho annotato “riuscire a”. Mentre rivedevo il testo mi sono imbattuto in un “Riuscì a reagire d’istinto”. Come l’ho visto, l’ho corretto in “Reagì d’istinto”, perché è sintetico, diretto, dice al lettore quanto deve sapere. Com’era prima sarebbe pleonastico, poco elegante e allungherebbe.

Se, come io credo e pretendo dalla mia scrittura, un romanzo deve assurgere alla bellezza, allora è il caso di risparmiare tempo e spazio ove più parole sono il troppo che stroppiano.

Nella narrativa il bello si esalta se è circondato dall’essenziale.

Credo l’esempio dica molto, se non tutto. Ancora una volta, l’aspetto importante della questione non è eliminare questi vizi e vezzi che strozzano la sintesi e strizzano l’occhio agli arzigogoli – ridondanza voluta e deliziosa: “Zii te ztezzo!

L’importante è conoscere i propri limiti e trovare un metodo per ovviarvi.

A cosa serve la revisione, se non a smussare i propri spigoli, lenire il dolore e cicattrizzare le ferite che la nostra deliziosa imperfezione causa quando ci esprimiamo in modo libero e feroce?

A molti non piace la revisione, lo so. Forse dipende dal fatto che è quel momento del processo creativo in cui ti ritrovi faccia a faccia con la tua capacità di metterti in discussione per ovviare alle tue “malefatte”.

Sorrisetto beffardo.

In una società individualista, in cui la superficialità ha conquistato sin troppi spazi – “Chiunque può diventare uno scrittore!” –, immagino che l’esercizio dell’umiltà sia chiedere l’impossibile sin troppo spesso.

In fondo so scrivere! È soltanto una storia. La si scrive, al massimo la rileggi un po’, s’impacchetta e spedisce. E se non te la pubblicano è perché sono stronzi oppure perché se non sei in qualche modo ammanigliato e non hai un cugino nell’editoria non puoi farcela. Funziona tutto così in Italia!

Sarà che sono proprio limitato, sì.

Prima di firmare il mio primo contratto con l’Editrice Nord scrissi ogni giorno per oltre nove anni. “Senzanome”, quand’ero già abbastanza esperto, lo scrissi in cinque, soffertissimi anni. Prima di quest’ultima revisione, lo corressi non so nemmeno io quante volte – nell’ordine delle decine.

Sono umile? Non lo so e sono piuttosto certo che in certi momenti io brilli di presunzione propria – se mi permettete il gioco di parole. Quindi se sono umile, direi che ho ancora ampi margini di miglioramento.

Quello di cui sono certo, invece, è che sono limitato.

Sotto con la seconda parte!

La seconda parte consta di 91.000 parole suddivise in 16 capitoli, per un totale di oltre 570.000 battute. 315 cartelle standard, da revisionare a una media di 5.000 parole al giorno per rispettare la deadline del 9 febbraio.

A presto!

 


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